A lezione da Dante: "La divina scienza"
A Elena, senza la quale non sarebbe stato possibile scrivere questo articolo
Grazie per la sua pazienza e per il suo strepitoso lavoro di ricerca,
che le hanno consentito la stesura de “L’unità del sapere nella Divina Commedia”,
indispensabile punto di riferimento per questo lavoro.
Introduzione
Se al liceo mi avessero profetizzato la scrittura di un articolo su “La Divina Commedia”, penso sarei scoppiato in una grassa risata. Infatti, ho sempre nutrito una profonda antipatia nei confronti del Poeta: in realtà credo di non aver mai approfondito le ragioni di questa radicata idiosincrasia (forse l’ostilità verso un lessico criptico o, piuttosto, la ricchezza di metafore di difficile comprensione?), oggi incredibilmente mutata in una sorte di amore platonico, rafforzato e riconfermato dalla lettura dello scritto di Elena. Sono fermamente consapevole della grandezza di Dante, un poeta che ha saputo realizzare un’opera meravigliosa, un unicum nel panorama letterario italiano, un poema in grado di abbattere con convincente vigore le barriere tra diversi ambiti culturali. Infatti, “La Divina Commedia” è un perfetto esempio di come filosofia, teologia, arte, matematica e fisica possano armoniosamente interagire, al pari degli strumenti di un’orchestra sapientemente concertati da un abile direttore. Tutto scorre senza contraddizioni, come in una sorta di monito per le generazioni future: oggi, infatti, la scienza ha portato a una scissione piuttosto marcata delle discipline umanistiche da quelle scientifiche: una specializzazione sempre più maniacale e accurata ha portato a una netta divaricazione tra le branche del sapere, rendendo concreta, da un lato, la possibilità di raggiungere traguardi significativi, ma legittimando al tempo stesso la perdita di una visione d'insieme della cultura. Questa continua tensione tra la divisione del sapere e l'affannosa e fallimentare ricerca sull’essenza dell’uomo, spiega il perché, anche in epoche recenti, gli scienziati abbiano voluto rileggere “La Divina Commedia” con le lenti della scienza “esatta”. Come Dante ha abilmente mescolato diversi ambiti culturali per rappresentare la sua visione del mondo, così lo scienziato moderno aspira a poter collocare il proprio sapere all’interno di una più profonda indagine sull’essere e sull’uomo, incontrando su questa aspra strada i riferimenti scientifici del Poeta.
E’ bene tenere in considerazione altri tre punti:
- La divisione tra discipline umanistiche e scientifiche si è rafforzata nel corso del XX secolo, ma è stata anticipata nel corso dell’800 dal Positivismo. Auguste Comte, fondatore della corrente positivista, ha cominciato a celebrare la scienza come unica fonte di sapere, relegando la filosofia a un posto secondario (il che, secondo me, è quanto meno in antitesi con il desiderio di dare vita ad una corrente filosofica).
- Specialmente in alcuni ambienti dell’istruzione, vi è ancora un pericoloso terrorismo psicologico riguardo le materie umanistiche; veri e propri discorsi populisti che minano la passione dei giovani verso un ambito culturale nobile al pari della scienza (sono studente di ingegneria!): è inaccettabile propagandare con assurda convinzione l’impossibilità di cooperazione tra le diverse branche del sapere, è prostituzione intellettuale, è un passivo adeguarsi a un credo pseudo-culturale chiuso e senza via d’uscita.
3. Le interpretazioni dei passi analizzati non devono essere lette come una forzata e anacronistica applicazione di studi recenti a teorie medievali e non vogliono in alcun modo celebrare Dante come anticipatore di discipline moderne ma, piuttosto, vogliono fornire, come al solito, uno spunto di riflessione su questa ricerca di unità.
L’articolo, vista la ricchezza e la raffinatezza culturale dei contenuti, sarà pubblicato in più parti: il lettore potrà così godersi con la dovuta calma la lettura de “La Divina Commedia” sotto nuove e potenti lenti, in grado di scovare anche i dettagli più curiosi e magici.
Prima parte – Matematica
Geometria euclidea
Grazie al matematico greco Euclide, la matematica si configura come un sapere coeso e ben strutturato, che discende da assiomi (proposizioni assunte vere e non dimostrabili) e porta alla dimostrazione della verità o falsità di alcune affermazioni. In questo passo dell’opera (Paradiso XVII, 13-15), Dante, affascinato dal rigore della geometria euclidea, declina in modo curioso la celebre “legge del contrappasso”: vista la difficoltà nel presentare un concetto irrazionale e metafisico (le virtù della beatitudine), ricorre alla pura razionalità, consentendo al lettore di avere un’immagine empirica e d’immediata comprensione.
“O cara piota mia che sì t'insusi,
che, come veggion le terrene menti
non capere in trïangol due ottusi,
così vedi le cose contingenti
anzi che sieno in sé, mirando il punto
a cui tutti li tempi son presenti”
Il principio matematico a cui Dante fa riferimento è espresso nel quinto postulato degli “Elementi” di Euclide: la somma degli angoli interni di un triangolo è pari a un angolo piatto (π). Dante, infatti, incontra Cacciaguida e loda le sue virtù di beato, che gli consentono di prevedere gli eventi prima che questi si realizzino, con la stessa facilità con cui un uomo comprende che in un triangolo non possono esistere due angoli ottusi.
Successioni numeriche
Un altro interessante riferimento alla matematica è contenuto in un passo del Paradiso dantesco (XXVIII, 91-93). In questo caso, il Poeta fa riferimento a calcoli complicati, allora risolvibili solo mediante l’utilizzo dell’abaco, studiati oggi nella teoria delle successioni.
"L'incendio suo seguiva ogni scintilla;
ed eran tante, che 'l numero loro
più che 'l doppiar delli scacchi s'immilla"
Dante vuole descrivere la straordinaria visione della quantità infinita di angeli, che garantiscono la grandezza di Dio. Tuttavia sceglie di non appellarsi al filosofico concetto di infinito. Un numero “infinito”, infatti, non può ulteriormente essere accresciuto ed è ostile alla razionale mente umana, incapace di visualizzare il numero: con grande abilità retorica, Dante scrive di così tanti angeli da non poter essere contati, ma non in un numero infinito, affinché possano nascerne ancora, sempre.
Il Poeta ricorre all’antica leggenda orientale di Sissa Nassir, l’inventore degli scacchi; egli chiese come ricompensa al suo entusiasta sovrano qualche cosa di apparentemente assai modesto: presa la scacchiera 8 per 8, chiese un chicco di riso sulla prima casella; il doppio, cioè 2, sulla seconda; il doppio ancora, cioè 4, sulla terza; il doppio ancora, cioè 8, sulla quarta; e così via fino alla sessantaquattresima casella.
Grazie alla teoria delle successioni, questi calcoli sono facilmente risolvibili: la successione numerica formata dal numero di chicchi per ciascuna casella è, infatti, una progressione geometrica, in quanto il quoziente tra ogni termine e il suo precedente è costante; tale quoziente si definisce ragione e nel caso di Sissa Nassir è 2, mentre nel caso degli angeli di cui parla Dante è 1000. In una progressione geometrica il termine An è uguale al prodotto del primo termine A1 per la potenza della ragione (q) con esponente n-1.
Sn = A1 + A2 + A3 + … + An
qSn = A1q + A2q + A3q + … + Anq
qSn – Sn = Anq - A1
Sn (q – 1) = ( A1qn – 1 ) q – A1
La somma dei primi n termini di una progressione geometrica di ragione q diversa da 1 è pertanto espressa dall’espressione: Sn = A1(qn - 1)/(q - 1)
Per dovere di cronaca, il numero di chicchi di grano richiesti è 18.446.744.073.709.551.615!!
Probabilità
Nel Purgatorio (VI, 1-3 ), invece, troviamo un interessante riferimento al gioco della zara, che ben si presta a moderne considerazioni probabilistiche.
"Quando si parte il gioco de la zara,
colui che perde si riman dolente,
repetendo le volte, e tristo impara”
Il gioco della zara era un gioco molto diffuso nel Medioevo: basta gettare tre dadi mentre due giocatori, nel breve intervallo che intercorre tra il lancio e l’arresto dei dadi, dicono ciascuno un numero (da 3 a 18); vince la posta chi indovina il risultato.
Oggi è piuttosto semplice calcolare la probabilità di vittoria. Infatti, la probabilità che esca una determinata faccia di un dado è 1/6. I lanci dei tre dadi sono eventi stocasticamente indipendenti e, pertanto, per il teorema della probabilità composta, la probabilità che si verifichi una combinazione di numeri che porti a una data cifra è ottenuta sommando i prodotti tra le probabilità che su ciascun dado esca un numero appartenente alla combinazione ricercata.
I numeri più alti e più bassi, essendo ottenibili da un numero inferiore di combinazioni, hanno una minore probabilità di uscita. La zara è quindi certamente un gioco d’azzardo, ma assistendovi più volte, è possibile intuire quali siano i numeri su cui puntare per vincere più facilmente, concetto che sta alla base della probabilità statistica.
Nel passo riportato emerge proprio questa intuizione: Dante accenna, infatti, alla parziale indipendenza del gioco dalla sorte con il termine “impara”. Ancora una volta troviamo uno straordinario ponte tra la cultura medievale e gli studi moderni.
In questi giorni, ultimi scampoli di un’estate interminabile ma sempre ricca di scoperte intellettualmente stimolanti, ho avuto occasione di riflettere su un tweet di un nostro fan, che ha definito il mio precedente articolo “un Interstellar del 1300”. Mi ha fatto piacere, eccome.Penso che il nostro follower abbia colto la vera essenza degli articoli della sezione “filosofica-mente”: l’intento è proiettare il lettore in una realtà astratta da cui trarre un continuo sostentamento e arricchimento intellettuale (oltre a una crescita pseudo-personale che corrobora la consapevolezza di sé, di cui siamo sempre pavidi), un viaggio raccontato con parole in grado di fecondare la nostra mente, legittimando la nascita di una mentalità aperta verso ambiti del sapere interessanti e culturalmente alti, sebbene costantemente bistrattati con violenza verbale. A questo proposito, mi sovviene uno spezzone del celebre film “L’attimo fuggente”:
"Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana, e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento, ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita."
E’ proprio così: che mondo sarebbe senza poesia, musica e arte? Che vita sarebbe senza libri e film? Risposta semplice: una vita non degna di essere vissuta, non degna della passione intrinseca in ogni uomo. La fisica è la mia passione, al tempo stesso amo la matematica e non finisco mai di stupirmi dell’armonia della natura, sempre obbediente a leggi eleganti e deterministiche, ma solo la musica, l’arte e la poesia sono in grado di farmi vibrare l’anima. Per ogni uomo è così. Deve essere così. Altrimenti saremmo gelidi robot, incapaci di provare sentimenti in grado di scaldare i nostri cuori elettronici. Solo queste discipline, infatti, garantiscono una visione piena della vita, un angolo giro ricco di sapore e libidine.
Ed eccoci giunti al nostro secondo appuntamento con la scienza della “Divina Commedia”.
Logica
Dante conosce la logica attraverso lo studio del trivio (grammatica, retorica, dialettica), che approfondisce all’Università di Bologna; inoltre ha occasione di studiare la logica classica attraverso Boezio e Aristotele, così come la logica medievale attraverso le opere di Pietro Ispano e Tommaso d’Aquino.
Riferimenti alla logica modale sono presenti nella Divina Commedia, ed è interessante osservare come anche in questo caso l’opera di Dante diventi testimonianza delle riflessioni che hanno progressivamente portato all’elaborazione di una disciplina moderna. A partire da Aristotele, infatti, gli studiosi hanno contribuito all’arricchimento della logica fino ad arrivare a Boole, che nel XIX secolo definisce formalmente la logica matematica, cioè il settore della logica che fa uso di modelli matematici, la celebre algebra booleana. In Inferno (XXVII 112-123) leggiamo:
Francesco venne poi, com' io fu' morto,
per me; ma un d'i neri cherubini
li disse: "Non portar: non mi far torto.
Venir se ne dee giù tra ' miei meschini
perché diede 'l consiglio frodolente,
dal quale in qua stato li sono a' crini;
ch'assolver non si può chi non si pente,
né pentere e volere insieme puossi
per la contradizion che nol consente".
Oh me dolente! come mi riscossi
quando mi prese dicendomi: "Forse
tu non pensavi ch'io löico fossi!"
Parla Guido da Montefeltro, che si trova nell’ottava bolgia tra i consiglieri di frode. Il grande condottiero (poi frate francescano) viene convinto da Papa Bonifacio XIII a peccare, rassicurato dalla promessa del Papa di assolverlo in anticipo per la colpa di cui si macchierà. Alla sua morte, lo stesso Francesco d’Assisi lo va a prelevare per portarlo con sé in Paradiso, come era uso per le anime dei frati dell’ordine, ma il nero cherubino (il diavolo, angelo ribelle) glielo impedisce sconfiggendo San Francesco con una logica imbattibile e trasportando la sua preda all’inferno.
Analizziamo il sillogismo che incatena Guido al suo destino:
- “Assolver non si può chi non si pente” significa che: “Ogni assolto è un pentito”; in termini di insiemi, se A è l’insieme degli assolti (validamente) e P quello dei pentiti, A è contenuto nell’ insieme P (A ⊂ P)
- “Né pentere e volere insieme puossi” significa che: “Nessun pentito è un peccatore volontario”; se con V indichiamo l’insieme dei peccatori consapevoli, abbiamo che P è incluso nel complementare di V, !V (P ⊂ !V).
Se ne deduce, con un banale sillogismo, che l’insieme degli assolti è incluso nel complementare dei peccatori volontari (A ⊂ !V) o meglio che nessun assolto può essere un peccatore volontario.
Quindi, se g è un elemento di A, allora è anche elemento di !V, cioè non è elemento di V.
Un altro interessante spunto di logica lo troviamo in Paradiso (VI 19-21):
“Io li credetti; e ciò che 'n sua fede era,
vegg' io or chiaro sì, come tu vedi
ogni contradizione e falsa e vera.”
Siamo nel secondo cielo del Paradiso, dove vi sono gli spiriti attivi per gloria terrena. Giustiniano narra la sua conversione, avvenuta sotto Papa Agapito I (“li”), dall’eresia monofisita, che afferma esserci in Cristo la sola natura divina, alla dottrina romana, per la quale invece natura divina e natura umana sono entrambe necessariamente presenti. Giustiniano, giunto in Paradiso, costata direttamente la veridicità di ciò che sosteneva Agapito e quindi dell’intera dottrina della Chiesa Romana. Questa terzina è stata interpretata in due modi:
- L’interpretazione classica vi legge l’esplicitazione del principio del terzo escluso che si trova formulato nella metafisica di Aristotele: dati due enunciati, dei quali uno è la negazione dell’altro, uno è vero e l’altro è falso, non c’è una terza possibilità. Giustiniano vede la veridicità della dottrina cristiana in modo chiaro, così come a noi appare logicamente chiaro che due proposizioni che si negano reciprocamente sono inevitabilmente una vera e una falsa.
- Bruno d’Amore, docente di Didattica della Matematica alle Università di Bologna e Bolzano, azzarda una nuova interpretazione, più complessa, ma forse anche più affascinante: nelle Summulae Logicales di Pietro Ispano, che Dante conosceva, viene enunciato il teorema dello Pseudo Scoto, al quale il poeta farebbe riferimento in questo passo. Secondo tale teorema, a partire da una contraddizione, si può dimostrare qualunque cosa, sia il falso che il vero. Il principio del terzo escluso è un postulato, indimostrabile per definizione e pertanto il suo riconoscimento ha ancora teoricamente qualcosa del puro atto di fede; il teorema, invece, è dimostrabile e quindi più vicino alla nuova dimensione evidente e razionale in cui Giustiniano vede ora la fede cattolica. Bruno d’Amore fornisce pertanto un’interpretazione molto sottile, ma che sicuramente rimane più coerente con il brano e trasmette in modo molto incisivo la nuova posizione di Giustiniano di fronte alla fede: chiara e certa come può essere una dimostrazione logica, non più astratta come un postulato al quale ci si affida senza averne comprese pienamente le ragioni.
Seconda parte - Fisica
Ottica
Dante attinge materiale per la sua opera anche dalla fisica in quanto disciplina che descrive rigorosamente e scientificamente l’ordine dei fenomeni terrestri. Dante studia la fisica e in particolare l’ottica soprattutto sui trattati di Pietro Ispano e probabilmente ha anche modo di ascoltare nelle lezioni che il Pontefice tenne a Siena sulle arti, sulla teologia e sull’ottica.
Un esplicito riferimento all’ottica lo troviamo in Purgatorio (XV 16-23):
“Come quando da l'acqua o da lo specchio
salta lo raggio a l'opposita parte,
salendo su per lo modo parecchio
a quel che scende, e tanto si diparte
dal cader de la pietra in igual tratta,
sì come mostra esperïenza e arte;
così mi parve da luce rifratta
quivi dinanzi a me esser percosso;
per che a fuggir la mia vista fu ratta.”
Siamo nel Purgatorio e il poeta procede nel suo viaggio insieme a Virgilio. La luce del sole batte sul suo volto, ma a un tratto una nuova luce, decisamente più abbagliante, si aggiunge: è la luce che proviene dall'angelo che si fa incontro ai pellegrini per farli salire al girone superiore. La luce è così intensa che Dante è costretto a voltar lo sguardo.
Dante dedica due terzine alla descrizione minuziosa del fenomeno ottico della riflessione della luce. Esistono due leggi che regolano la riflessione della luce, formalizzate da Snell, ma già note fin dai tempi di Archimede:
- la prima legge della riflessione afferma che il raggio incidente, il raggio riflesso e la normale alla superficie riflettente nel punto di incidenza giacciono sullo stesso piano, detto anche piano di incidenza
- la seconda legge della riflessione afferma invece che l'angolo di incidenza e l'angolo di riflessione sono congruenti tra loro, dove l'angolo di incidenza è l'angolo che il raggio incidente forma con la normale, mentre l’angolo di riflessione è l'angolo che la normale forma con il raggio riflesso.
sinθi = sinθr
⇓
θi = θr
- la terza legge afferma che Il rapporto tra il seno dell'angolo di incidenza e il seno dell'angolo di rifrazione è uguale al rapporto tra l'indice di rifrazione del secondo mezzo e l'indice di rifrazione del primo. Da questa deriva banalmente che se il primo mezzo ha un indice di rifrazione maggiore del secondo, c'è un angolo di incidenza limite oltre il quale il raggio viene totalmente riflesso.
sinθi / sinθt = n2 / n1
È proprio la seconda legge che viene descritta da Dante: quando un raggio di luce colpisce l’acqua o uno specchio, rimbalza sulla superficie e risale allo stesso modo di come era disceso, allontanandosi dalla perpendicolare (“il cader della pietra in ugual tratta”) per un tratto uguale.
Dante applica una descrizione prettamente scientifica per enfatizzare lo straordinario fenomeno a cui assiste: il poeta infatti vuole farci capire come la luce non sia emanata dallo stesso angelo, ma si rifletta sul suo volto provenendo da un’altra sorgente, che non può essere il sole, perché esso si trova alle sue spalle, ed è quindi la luce emanata da Dio.
La scienza pura, empirica, legata alle certezze dell’esperienza (“sì come mostra esperienza e arte”) diventa funzionale alla descrizione di una situazione metafisica.
Dopo due articoli densi di informazioni e citazioni, siamo finalmente giunti al termine della trilogia relativa alla scienza ne “La divina commedia”. Spero che questa serie di articoli possa aver acceso in ognuno dei lettori la piccola sorgente luminosa che, appositamente installata in ogni uomo, riesce a scaldare (per effetto Joule!) il nostro cuore, allietandolo e permettendogli di trovare un metodo per conciliarsi con l’Essere. L’intento, infatti, è cercare di fornire ai lettori uno spunto di riflessione, un’occasione per riassaporare l’opera Dantesca, consapevolmente condita con un pizzico di razionalismo scientifico, sfumato e declinato in un’analisi che cerca di trascendere i limiti umani per trovare un più ampio respiro in una parentesi metafisica e astratta, che auspico di aver aperto in ognuno di voi con gli articoli della sezione “filosofica-mente”. A tal proposito mi sovviene una frase contenuta in “Inneres auge” del mio Maestro Franco Battiato: “Ma quando ritorno in me, sulla mia via, a leggere e studiare, ascoltando i grandi del passato, mi basta una sonata di Corelli, perché mi meravigli del creato!”. Ecco. L’uomo riesce a giungere a una rapida ma solenne tangenza con l’Essere. Come? “Ascoltando i grandi del passato”. Voglio invitarvi ad un’intima riflessione per stimolarvi a raggiungere questa pace interiore, che permette di “meravigliarsi del creato”. L’impresa è ardua, è evidente. Ma non impossibile. Gli occhi e le orecchie vanno lentamente allenati per diventare ciò che Battiato definisce “inneres auge”, l’occhio interiore. L’occhio dell’uomo, traendo ispirazione dai più grandi maestri (ed ecco Dante), riesce ad elevarsi al di sopra del piano terreno, raggiungendo così un piano parallelo, più ricco di soddisfazione per il cuore e per l’anima. Solo chi trae godimento dalla poesia, dalla musica e dall’arte può raggiungere questa condizione paradisiaca e primordiale. Dante ci è riuscito e ha scritto un’opera meravigliosa. Battiato scrive canzoni dal sapore di miele e ambrosia. Sta all’uomo cercare l’ordine primordiale ed edenico del mondo.
Eccovi gli ultimi spunti di riflessione sulla Commedia.
… ancora matematica!
Geometria euclidea
Analizzando il testo dantesco possiamo scorgere un altro riferimento alla geometria euclidea (Paradiso XIII, 112-114):
“Non ho parlato sì, che tu non posse
ben veder ch'el fu re, che chiese senno
acciò che re sufficïente fosse;
non per sapere il numero in che enno
li motor di qua sù, o se necesse
con contingente mai necesse fenno;
non si est dare primum motum esse,
o se del mezzo cerchio far si puote
trïangol sì ch'un retto non avesse”
San Tommaso spiega a Dante come la perfezione della sapienza del primo uomo, Adamo, e di Cristo-uomo non sia in contraddizione con la tradizionale opinione che considera il Re Salomone il più sapiente tra gli uomini. Salomone, infatti, secondo la tradizione biblica, chiese a Dio la sapienza necessaria per essere un valido regnante, non per comprendere questioni metafisiche che rimangono inaccessibili alla mente umana.
In questi versi non compare unicamente un’ indicazione matematica, ma Dante si serve di problemi legati a diversi ambiti di studio come esempi di fenomeni non spiegabili dall’uomo.
- problema TEOLOGICO, numero delle intelligenze motrici
- problema DIALETTICO, possibilità di dedurre una conclusione necessaria da una premessa contingente e da una necessaria
- problema FILOSOFICO, esistenza di un primo moto che non sia effetto di un altro moto
- problema GEOMETRICO, impossibilità di inscrivere in un semicerchio un triangolo che non sia rettangolo.
In questo caso quindi Dante fa un uso diverso della geometria euclidea: non si appella più al suo rigore affinché una dimostrazione acquisti valore scientifico, ma proprio la certezza logica che caratterizza la matematica diventa indicazione della limitatezza della mente umana, in quanto incapace di comprendere le ragioni metafisiche che permettono a tale disciplina di essere così perfetta.Per esprimere questi concetti il poeta fa riferimento a un semplice teorema dimostrabile mediante gli insegnamenti di Euclide: ogni triangolo inscritto in una semicirconferenza è un triangolo rettangolo.
Quadratura del cerchio
L’importanza che Dante attribuisce alla matematica è confermata dalla conclusione del poema, dove l’autore sceglie come ultima similitudine una raffinata immagine matematica. In Paradiso XXXIII, 133-136, leggiamo:
“Qual e' 'l geometra che tutto s'affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
tal era io a quella vista nova”
Il canto si svolge nell’empireo e Dante, ormai giunto alla fine della narrazione, racconta la visione della trinità, che appare come tre cerchi (o sfere) di uguale grandezza e diverso colore e dell’incarnazione, visibile nel secondo cerchio, nel quale è racchiusa un’immagine umana. Si tratta di misteri non conoscibili con facoltà umana; in particolare lo sforzo logico e umano di Dante è insufficiente a penetrare il sommo mistero dell’unione tra l’umano e il divino, così come lo sforzo del matematico è vano di fronte al mistero della quadratura del cerchio.
Il problema della quadratura del cerchio consiste nel costruire un quadrato che abbia la stessa area di un dato cerchio con l’uso esclusivo di riga e compasso. Questo, la trisezione dell’angolo e la duplicazione del cubo costituiscono i tre grandi problemi della geometria greca.
Eseguire una costruzione con riga e compasso significa tracciare segmenti e angoli servendosi esclusivamente di una riga e di un compasso idealizzati, ossia non graduati. Il problema delle costruzioni con riga e compasso ha accompagnato gli sviluppi della geometria nella Grecia antica. Infatti, per i matematici greci i problemi geometrici si presentavano non nella forma genericamente esistenziale, ma in quella costruttiva.
La quadratura del cerchio con l’uso esclusivo di riga e compasso non è possibile: infatti trovare una soluzione richiederebbe la costruzione del numero π, perché essendo l'area del cerchio π r2, sarebbe necessario costruire un quadrato con lato pari a rπ1/2. L'impossibilità di una tale costruzione, deriva dal fatto che π è un numero trascendente, ovvero non-algebrico, e quindi non-costruibile. La trascendenza di π fu dimostrata da Ferdinand von Lindemann nel 1882, e quindi l’impossibilità venne provata rigorosamente, anche se i geometri dell'antichità avevano afferrato molto bene, sia intuitivamente che in pratica, la sua intrattabilità.
Dante si trova a dover descrivere il mistero dell’incarnazione, inaccessibile all’uomo, per quanto questi si sforzi di coglierne l’essenza mediante gli strumenti di cui è dotato. Il poeta trova il modo per esprimere la disperazione razionale di chi cerca senza esito con la ragione, senza riuscire a raggiungere qualche cosa che sfugge sempre per poco, che appare sempre e solo quasi raggiunta. L’uomo tende alla comprensione dei misteri divini così come l’area del quadrato tende a quella del cerchio, con un’approssimazione sempre minore, senza però mai raggiungerla pienamente.
La ricerca matematica diventa così il simbolo della ricerca teologica e metafisica; le dinamiche di queste discipline così apparentemente lontane vengono fatte coincidere.
Terza parte - Conclusione
“La divina commedia” letta dagli scienziati
Dante celebra la matematica come altissima forma di sapere, inserendola nella sua opera in numerose occasioni. Simmetricamente molti scienziati di ogni epoca sono rimasti affascinati dall’opera di Dante, sia per il suo grande valore letterario, sia per i riferimenti matematici che hanno fornito spunti per approfonditi studi e riflessioni. Riporto due esempi di letture scientifiche dell’opera.
Galileo Galilei nel 1588 fu chiamato dall’Accademia Fiorentina a tenere alcune conferenze di argomento letterario, in particolare tenne due lezioni “Circa la figura, sito e grandezza dell’inferno di Dante”. Galileo si proponeva di illustrare con metodo scientifico la forma e le dimensioni dell'Inferno dantesco. L'analitico studio della geografia del luogo e delle sue misure portò alla scoperta dell'assoluta correttezza e coerenza del testo poetico, tale da rendere perfettamente plausibile la voragine infernale. Ad esempio Galileo trae da alcuni versi dell’inferno i riferimenti per misurare l’altezza di Lucifero e da qui perviene alla dimensione dell’ immenso lago ghiacciato situato nel nono cerchio dell’inferno, essendo il raggio di questo pari alla metà del petto del diavolo.
In tempi più recenti, Horia-roman Patapievici , fisico romeno contemporaneo, nel libro Gli occhi di Beatrice. Com’era davvero il mondo di Dante?, (2004), azzarda un’indagine ancora più complessa rispetto a quella di Galileo: secondo la sua tesi l’universo delineato da Dante ha anticipato il modello dell’universo teorizzato da Reimann, basato sul concetto di ipersfera. Reimann ipotizza che, come la terra non può essere adeguatamente rappresentata su una superficie piana perché dotata di una dimensione in più, così l’universo non può essere rappresentato da un modello semplicemente sferico perché dotato di un’ulteriore curvatura. Immaginiamo un osservatore che dal polo nord osserva le linee dei paralleli terrestri: vede delle circonferenze che si allargano progressivamente fino a raggiungere il diametro massimo dell’equatore. Se l’osservatore si sposta e raggiunge l’equatore, guardando verso nord e guardando verso sud vede le linee dei paralleli che riducono il loro diametro avvicinandosi rispettivamente al polo nord e al polo sud. Infine, se l’osservatore prosegue il suo percorso nella stessa direzione, raggiunge il polo sud, nuovamente l’equatore, e alla fine ritorna alla posizione di partenza.
Proviamo ora a trasferire questo sistema in un mondo a quattro dimensioni aiutandoci attraverso il seguente disegno:
Immaginiamo un osservatore al centro della sfera a sinistra e immaginiamo che l’interno di tale sfera rappresenti tutto ciò che l’osservatore può vedere. Egli non vede più le circonferenze dei paralleli che aumentano di diametro, ma delle sfere, che raggiungono il diametro massimo in corrispondenza della sfera equatoriale. La sfera equatoriale corrisponde alla superficie che due sfere hanno in comune, così come l’equatore è il parallelo comune alle due semisfere del globo terreste. Se l’osservatore raggiunge la sfera equatoriale e guarda verso nord e verso sud, vede due serie di sfere concentriche che diminuiscono il loro raggio avvicinandosi a due punti opposti. Infine, se l’osservatore prosegue il suo percorso, ritorna al centro della sfera di sinistra, da dove era partito. Su una comune sfera, i cerchi concentrici, partendo da un punto, diventano progressivamente maggiori fino a raggiungere una grandezza massima, per poi tornare a diminuire la loro circonferenza convergendo in un altro punto diametralmente opposto a quello di partenza; analogamente, su un’ipersfera, sfere concentriche crescono fino ad una grandezza massima per poi rimpicciolirsi nuovamente. Dante racconta di quando, raggiunta la sfera più esterna dell’universo aristotelico, Beatrice lo invita a guardare verso il basso e il poeta contempla le nove sfere concentriche dei cieli, con in fondo, piccolissima, la Terra in rotazione; alza poi lo sguardo verso l’alto ed è folgorato da un punto di luce abbagliante – Dio –circondato da nove immense sfere di angeli. Patetpievici individua in questa descrizione proprio il modello descritto prima: i due estremi dell’ipersfera sarebbero la terra e Dio, visibili entrambi dal “primo mobile”, corrispondente alla sfera equatoriale.
Ovviamente Dante non fu il profeta della geometria non euclidea di Riemann pubblicata nel 1854. Il suo mondo a quattro dimensioni è l’inconsapevole risultato del tentativo di conciliare la cosmologia aristotelica con la visione cristiana: un universo finito, materiale e geocentrico, con un universo infinito, spirituale e teocentrico. Dante non descrisse coscientemente un’ipersfera, ma questa potrebbe bene descrivere l’universo da lui concepito.
Le lezioni di Galileo e l’interpretazione di Patepievici sono state molto discusse e spesso criticate. Le letture scientifiche della Divina Commedia sarebbero frutto della limitante critica moderna sempre meno capace di abbandonarsi all’esperienza letteraria pura e semplice e concentrata invece sempre di più sulle questioni scientifiche. Ma è proprio vero che la lettura scientifica di un’opera letteraria ne riduce la ricchezza? La stessa Divina Commedia risponde negativamente a questa domanda. E non solo perché è lo stesso Dante il primo a creare una straordinaria coordinazione tra le discipline appartenenti agli ambiti più diversi affinchè tutte collaborino alla rappresentazione poetica del suo viaggio, ma perché i matematici, con i loro metodi di indagine scientifici, hanno contribuito a esaltare il lavoro di immaginazione e a mostrare come esso, se verosimile, possa essere ancora più mirabile.
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