Dentro o fuori?
Dedicare un po' di tempo a noi stessi ci offre l'occasione per riflettere, leggere e pensare. E osservare. Si può viaggiare, entrare in contatto con nuove culture, conoscere persone e scoprire realtà sorprendenti. Sforzarsi di guardare “altro” e cercare di capire, di “essere in cammino” e di porci delle domande. Perché, sì, “filosofia significa, in verità, essere in cammino. Le interrogazioni e le domande sono per essa più essenziali delle risposte e ogni risposta viene nuovamente e continuamente rimessa in discussione”. Ognuno di noi dovrebbe provare – almeno ogni tanto – a riconoscersi in questo ruolo: applicare il metodo scientifico alla filosofia e alla vita di tutti i giorni. Osservare, sperimentare e porsi dei quesiti. Per poi ribaltare tutto e costruire di nuovo. Spesso è stato detto “Così, però, si costruiscono castelli di sabbia: la prima onda li distrugge”. Ma non è questo il punto: è un approccio sbagliato. Infatti, il castello è lì. È fisicamente presente in quell’istante. Poco importa se qualche attimo dopo sarà svanito. Perché costituirà le fondamenta del successivo castello. Questo è l’approccio che conduce al metodo scientifico. Questa è la filosofia. Non bisogna per questo affermare che la filosofia segua il metodo scientifico, né che la filosofia sia una scienza o viceversa, quanto piuttosto che ci sia una solida base comune.
Le frasi riportate sotto sono un semplice espediente con cui introdurre l’argomento trattato nel testo. In generale, infatti, le citazioni – siano esse di personaggi illustri o tratti da film, libri o canzoni - hanno un importante potere: mettere il lettore nella condizione di poter assaporare con più confidenza e familiarità temi delicati e ostici, come quelli trattati in queste pagine. Questo scritto non vuole essere un saggio o un articolo vero in tutto e per tutto. È solo un modo per stimolare riflessioni e pensieri profondi. Il lettore, infatti, potrebbe provare a immedesimarsi e rispecchiarsi nelle situazioni descritte e cercare di dare una risposta. La sua risposta. Non è difficile: non esiste una verità assoluta. Esistono solo l’uomo e il suo “io” più nascosto.
“Mi domando chi sia stato a definire l’uomo un animale razionale. È la definizione più sconsiderata che sia mai stata data. L’uomo è tutto, fuorché razionale”.
“Visto da qui tutto tutto sembra lontano, convulso e insensato, agitato per niente. Come fosse distratto o indifferente a ciò che è importante”.
La prima frase è il fulcro intorno al quale ruotano queste riflessioni. Lord Henry Wotton si rivolge così a Dorian nel celebre “Ritratto di Dorian Gray” di Oscar Wilde. La seconda citazione, invece, è tratta da una canzone di Niccolò Fabi,“Fuori o dentro”. Anche solo dopo un primo distratto ascolto, si può notare come il testo di Fabi sia ricco di importanti spunti di riflessione: come se il cantante volesse fornirci un’occasione per porci delle domande e per ragionare, seguendo il metodo illustrato precedentemente.
Come punto di partenza per l’analisi, s’ipotizzi una conversazione in cui, a un certo punto del discorso, il nostro interlocutore intervenga così: “Perché Aristotele definiva l’uomo un animale razionale? L’uomo è tutto, ma non razionale”. Credo che la domanda desti, almeno inizialmente, un senso di smarrimento e curiosità. Cercando attentamente di capire, come confusi e “indifferenti a ciò che è importante”, si può giungere alla nostra conclusione. Non ha importanza come. Non ha importanza il pensiero altrui.
Nell’educazione e nella formazione della maggior parte degli italiani, i maestri cercano sempre di trasmettere l’importanza della razionalità: “Sii razionale”, “Pensaci bene e poi agisci”, “Analizza bene il problema, la soluzione poi sarà chiara”. Frasi e suggerimenti che hanno un unico filo rosso: la razionalità. Razionalità significa logica, significa matematica, significa ragionamento. Vuol dire non lasciarsi andare alle emozioni, non affidarsi troppo al destino, ma piuttosto scegliere con attenzione e coscienza. Certo, una formazione scientifica non aiuta. Non aiuta vivere costantemente in un ambiente che ha come unico obiettivo quello di iniettare nella propria mente la convinzione che tutto ciò che è “irrazionale” è al tempo stesso velenoso. Quasi fosse peccato. Probabilmente questa radicata convinzione è ancora più forte per le passate generazioni che, ancora oggi, nutrono molte perplessità verso discipline che focalizzano la loro attenzione sugli istinti e sugli impulsi umani. Tutto ciò che non è scienza va scartato. Un po’ come voler dire che tutto ciò che non è razionale va cancellato per sempre, in quanto non può guidare e condurre il pensiero dell’uomo. Ma è davvero così? Siamo così sicuri che le dinamiche relazionali, siano esse inter-personali o intra-personali, non siano importanti per il benessere della società e dell’individuo? Siamo sicuri che la razionalità debba sempre vincere? Siamo sempre convinti che l’atteggiamento razionale sia il motore che conduce alla verità e alla conoscenza? Le domande sono estremamente complesse e, come già anticipato, non esiste una risposta certa. Come in una sorta di brainstorming, ecco alcuni spunti di riflessione utili per poi lasciare a chi legge l’ardua sentenza.
Fin dall’antica Grecia, gli intellettuali hanno sempre sostenuto che la razionalità fosse la differenza essenziale che rende gli esseri umani dissimili dagli altri animali: l’uomo, infatti, merita di essere inserito in una categoria ontologica diversa rispetto a tutti gli altri enti finiti, viventi e non viventi. A tal proposito si può ripercorrere il pensiero di Aristotele, che durante l’epoca medievale veniva considerato un’autorità (“ipse dixit”) insindacabile. Solo nel periodo che va dal 1500 al 1600 si assiste a un vero e proprio cambiamento: la rivoluzione scientifica e culturale di Galileo e Copernico rovescia, infatti, il pensiero aristotelico, pone nuove leggi e fornisce all’uomo un nuovo punto di vista. Se da un lato, però, la razionalità aristotelica viene “tradotta” in razionalità galileiana (il metodo scientifico), in ambito artistico e letterario si ha un netto ribaltamento. La causa è da ricercarsi, ancora una volta, nella nuova scienza galileiana; questa, infatti, contribuisce al sorgere di una nuova disposizione mentale, governata dalla vista più che dagli altri sensi. In quest'ottica, la stranezza dell'arte seicentesca (barocca) è un tentativo di raccontare un mondo che non è più "a misura d'uomo", un tentativo di trasmettere il senso di smarrimento e di sgomento dell'uomo di fronte al concetto di infinito, veicolato dalle recenti scoperte astronomiche. Notevole contributo è dato poi dall'invenzione della stampa: la grande diffusione del libro, spesso arricchito con immagini e decorazioni, trasformò in breve tempo la “poesia da oggetto per l'udito a oggetto per l'occhio”. In definitiva, lo scopo dell'arte è comunque quello di impressionare, commuovere e convincere che anche ciò che non è reale lo può divenire (l’arte è autoreferenziale, fine a se stessa, non contiene insegnamenti morali o messaggi etici). La letteratura si presenta strettamente legata alle immagini: le poesie figurate o calligrammi, che consistono nel disporre le parole sulla pagina in modo da realizzare l'immagine dell'oggetto trattato nel testo, si diffondono rapidamente nel ‘600. Per quanto concerne il rapporto tra parola e immagine (vissuto quasi come una sorta di competizione), l'esperimento sicuramente più ardito per acutezza e concettosità è quello realizzato da Marino con "La galeria": più di 500 componimenti che descrivono dipinti. Marino sottolinea sempre il medesimo tema: ciò che è rappresentato nel quadro risulta essere talmente reale da sembrare quasi più vero della realtà stessa.
Il Seicento è anche il secolo della figura retorica principe, la metafora. Tanto più la metafora è complessa e ardita, tanto più il poeta viene considerato abile (spesso le frasi vengono anche utilizzate in forma di ossimoro, in modo da renderne più complicata la lettura e la comprensione). La metafora costituisce anche il mezzo attraverso cui il ‘600 trasmette tutta la sua stravaganza e fantasia. È proprio la metafora, più di ogni altra cosa, a trasmettere efficacemente il nuovo modo di vedere il mondo, tipico del secolo: accostando due elementi distinti della realtà, questa figura retorica consente di vederli sotto una prospettiva nuova e innovativa. Il XVII secolo esalta la creatività e l’immaginazione. L’arte, la prosa e la poesia sprigionano il potenziale irrazionale dell’uomo, regalandoci opere uniche e ardite.
Qualche tempo dopo, nel 1800, Søren Kierkegaard, celebre filosofo danese, riprende il tema della razionalità, declinandolo in un concetto strettamente legato alla quotidianità della vita umana: la decisione. Nel saggio “Aut-aut” (cioè o-o), il filosofo muove una pesante critica al pensiero di Hegel, reo di aver diffuso l’idea che l’uomo possa arrivare a una conoscenza assoluta e razionale della realtà. Per Kierkegaard, infatti, non può esistere un comportamento o una peculiarità riconducibile all’intero genere umano: ogni uomo è unico. Nella filosofia hegeliana, invece, si sostiene che la vita di tutti gli uomini abbia un tratto caratteristico: l’et-et (e-e). In questo contesto, le scelte dell’uomo, insieme a tutti gli opposti, vengono riconciliate in un unico processo di sintesi. Tutto concorre allo sviluppo di un sapere e di una conoscenza assoluta e razionale (che Hegel definisce “l’Assoluto”). Kierkegaard confuta queste tesi, sostenendo che la libertà viene vissuta con difficoltà e pesantezza dall’intero genere umano. Nel corso della propria esistenza, infatti, ogni uomo è posto di fronte a scelte o decisioni (da qui il titolo “Aut-aut”), che inevitabilmente gli procurano angoscia. Lo portano alla paura dell’indeterminato, al timore di qualcosa che non conosce e che non può conoscere. La possibilità, dunque, genera angoscia. La libertà genera angoscia. Un senso di smarrimento verso qualcosa d’imprevedibile e sconosciuto. Irrazionale.
A sostegno di questa tesi, Kierkegaard descrive due stili di vita contrapposti: quello di Guglielmo e quello del Don Giovanni. Il fruitore del saggio dovrebbe cercare di seguire la strada tracciata dal filosofo, immedesimandosi in uno dei due personaggi. Il Don Giovanni conduce un’esistenza basata sul concetto di “carpe diem” (cogli l’attimo): si dedica infatti al piacere e al godimento, avendo cura solamente dei propri interessi. Questo stile di vita risulta appagante solo in apparenza: Kierkegaard, infatti, ne denuncia la vacuità e l’impossibilità di giungere alla felicità, costringendo il Don Giovanni a una vita essenzialmente noiosa (“vita estetica”). La vita di Guglielmo, invece, è la vita dell’uomo che si riconosce nelle istituzioni e che si assume delle responsabilità all’interno della società: Guglielmo è un lavoratore e padre di famiglia. Anche in questo caso, però, Kierkegaard critica il modello di vita descritto: per l’uomo è impossibile essere perfetti e questa ineluttabile condizione lo porta a una delusione. Non è possibile, infatti, raggiungere i propri ideali (“vita etica”).
Su questa scia, la definizione dell’uomo come animale razionale viene – nel pensiero contemporaneo - nuovamente messa in discussione, fino a distruggere violentemente l’idea che l’uomo sia un soggetto razionale, autocosciente e autonomo, soprattutto dopo aver appreso le lezioni di grandi studiosi come Sigmund Freud o Daniel Goleman.
Il padre della psicoanalisi nota infatti che “nel corso dei tempi l’umanità ha dovuto sopportare due grandi mortificazioni che la scienza ha recato al suo ingenuo amore di sé. La prima, quando apprese che la nostra terra non è il centro dell’universo, bensì una minuscola particella di un sistema cosmico che, quanto a grandezza, è difficilmente immaginabile. Questa scoperta è associata per noi al nome di Copernico, benché già la scienza alessandrina avesse proclamato qualcosa di simile. La seconda mortificazione si è verificata poi, quando la ricerca biologica annientò la pretesa posizione di privilegio dell’uomo nella creazione e gli dimostrò la sua provenienza dal regno animale e l’inestirpabilità della sua natura animale. Questo sovvertimento di valori è stato compiuto ai nostri giorni sotto l’influsso di Charles Darwin […] La megalomania dell’uomo è destinata a subire la più forte e scottante mortificazione da parte dell’odierna indagine psicologica, la quale ha l’intenzione di dimostrare all’Io che non solo egli non è padrone in casa propria, ma deve fare affidamento su scarse notizie riguardo a quello che avviene inconsciamente nella sua psiche.” Queste argomentazioni sembrano andare in una direzione abbastanza chiara: esiste una dimensione personale e irrazionale in ogni uomo; ha un ruolo fondamentale nelle decisioni, nella gestione delle relazioni e nel lavoro. Nella vita. E spesso questa sfera “sensoriale” sembra prendere il sopravvento sulla nostra più profonda razionalità, sia essa una costrizione mentale o una sorta di nostra deontologia, impedendoci di scegliere e agire consapevolmente. La non-consapevolezza non è una caratteristica negativa, quanto piuttosto un dato di fatto, una sorta di tratto peculiare, insito nella natura umana e terrena.
In questa scena, però, come si inserisce il concetto di razionalità? Perché è importante essere razionali? Per rispondere a queste domande, è doveroso riprendere la citazione tratta dal già citato romanzo di Wilde. Lo scrittore inglese certamente non prevedeva che, qualche centinaio di anni più tardi, la scienza potesse imporsi così pesantemente nella società moderna né immaginare ciò che negli ultimi decenni è stato possibile accertare grazie alla mappatura del genoma umano, cioè che l’Homo sapiens differisce dalle scimmie solo per il due o tre per cento del suo DNA. Questo rende ancora più urgente una riflessione profonda su chi sia l’uomo e quale sia il valore del logos nella nostra vita quotidiana.
La razionalità è necessaria. Per ogni studioso e appassionato di scienza, la logica e il ragionamento sono necessari. Sono l’imprinting che ogni scuola e ogni formatore dovrebbe insegnare ai propri alunni. L’istruzione deve essere basata sulla razionalità: uno sguardo analitico, una capacità di problem-solving e una mentalità aperta al cambiamento e alla celeri dinamiche globali sono requisiti fondamentali. Solo in questo modo è possibile modellizzare la Natura e cercare di metterla al nostro servizio. Solo così l’uomo sprigiona il suo enorme potenziale e le sue capacità intellettive e conoscitive. Ma non basta. Non è sufficiente essere “fisici”. Non è sufficiente condurre una vita “matematica”. Una vita fredda, razionale e priva di istinti e passioni. L’uomo è un groviglio di sentimenti, di stati d’animo. L’uomo è irrazionale. Sempre. L’uomo deve saper gestire le proprie emozioni e deve essere perciò competente in ambito emotivo e comportamentale. In questo modo, si guadagna in benessere mentale e la razionalità può essere vissuta con più serenità: le nostre scelte diventano più consapevoli e sfioriamo la tangenza con il concetto aristotelico di “animale razionale”.
In questo complicato contesto s’inserisce anche il ruolo dell’immaginazione e della creatività, skills che appartengono alla “sfera irrazionale”, nonostante svolgano un ruolo fondamentale in ambito decisionale e di elaborazione, nelle quali, però, la razionalità dovrebbe essere sovrana.
L’uomo dunque non può essere razionale, ma la razionalità è insita nella sua natura. Al tempo stesso, però, all’uomo è richiesta razionalità, ma non può nascondersi dalla sua condizione di irrazionalità. Vivere positivamente le due sfere opposte risulta di vitale importanza, per il proprio benessere e per la propria esistenza. Ma… il bisogno di credere in un ente superiore a quale sfera appartiene? Nella vita dell’uomo c’è sempre bisogno di una via di fuga e di salvezza, una sorta di piano di emergenza, razionale e ragionato. Ma credere in Dio – senza alcuna critica o incoraggiamento alla spiritualità – è davvero un bisogno razionale?
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