Matematica e letteratura: due mondi opposti?
Oggi si inizia subito. Niente preamboli o frasi introduttive. Comincio con un paio di citazioni che, come di consueto, mi aiuteranno a dipanare gli argomenti di cui vorrei parlarvi. Via!
“Listening a cultivated person of today that jokes and almost boasts about his scientific ignorance is as sad as listening a scientist who boasts about not having read any poem.”
“La matematica e la fisica spiegano la realtà solo fino a un certo punto, ma non bastano per imparare a vivere, conoscersi ed essere felici.”
Credo che ormai abbiate imparato a capire quanto ami confondere le idee del lettore, argomentando una tesi e smontandola al passaggio successivo. Ecco. Nella prima citazione, Carlo Rovelli - uno dei miei idoli – sfiora il tema centrale dell’articolo: l’apparente incongruenza e incompatibilità tra poesia e scienza. Nella seconda frase, estrapolata dal libro “Quantic love. Il romanzo che risolve l’equazione dell’amore” della fisica Sonia Férnandez-Vidal, invece, si accenna all’importanza di valori e ideali, che sembrano trascendere la bellezza e il fascino di matematica e fisica. Ora vi starete chiedendo il motivo di queste due frasi contraddittorie, il cui valore è sicuramente relativo. Vince la scienza o la poesia? Ma poi… perché? La risposta è molto semplice.
Ogni giorno cerco di confrontarmi con coetanei (e non) che hanno intrapreso un iter molto diverso dal mio e molto spesso questi dialoghi sono fonte di interessanti riflessioni e ragionamenti. Molte volte mi è capitato sentire frasi come “io di matematica non ho mai capito nulla”: spesso chi le pronuncia mostra rammarico o dispiacere, altre volte, invece, si percepisce una sorta di immotivato orgoglio, come a sottolineare la radicata convinzione che “quelle cose” siano un po’ inutili. Dall’altro lato, però, vivo ogni giorno a contatto con una realtà scientifica – dunque fortemente analitica e razionale – nella quale avverto una simmetrica (ricordate: la simmetria torna sempre ed è molto affascinante) avversione verso poesia, letteratura o filosofia, considerati “ragionamenti” inutili che girano da millenni attorno agli stessi problemi, tessendo la loro trama attraverso sentimentalismi futili e sterili, argomentazioni dettate più da esigenze estetiche e soggettive, piuttosto che da un vero desiderio di indagare la realtà.
Nella mia testa traggo delle conclusioni. A mio modo di vedere, è lecita la posizione di entrambi gli schieramenti. Alla base di questo atteggiamento, però, concedetemelo, c’è molta ignoranza. Non è, però, solo un velo di quella ignoranza ingenua di chi, per i motivi più disparati, non sa (e dunque ignora), ma un’ignoranza radicata nel profondo. Ed è estremamente difficile eradicare e estirpare queste idee dalla mente umana, a causa della struttura intrinseca della testa dell’uomo. Purtroppo.
Evidentemente questo approccio porta ad una visione distorta delle diverse discipline, ognuna delle quali ha un peso molto rilevante nella nostra vita. Non vince la poesia, ma non vince la scienza. Vince la sinergia. Vince la loro stretta interdipendenza. Vince chi è in grado di fare scienza con un piglio “umanistico”, sempre attratto dalle dinamiche “umane” e dunque affascinato da un mondo, che non è solo modellizzabile in termini matematici, ma è anche un groviglio di sentimenti e passioni. Vince chi sa fare poesia con una visione razionale, una visione calata in una realtà dove, sempre di più, la scienza regna indisturbata. Sbaglia chi declassa la poesia, perché perde un’importante parte di vita, ma sbaglia anche chi rinnega il potere della matematica e della fisica, che, seppur difficilmente interpretabili, sono il più potente strumento di indagine oggettiva del mondo. Con questo non voglio dire che sia facile avere sempre un atteggiamento “aperto”, ma bisogna almeno provarci. E bisogna provare a non farsi inghiottire da quelle profonde radici dell’ignoranza di cui parlavo prima. Altrimenti è difficile tornare indietro.
Sono convinto che alla base di questi atteggiamenti controproducenti ci sia la scuola, che, durante gli anni, corrobora l’idea che le discipline umanistiche e scientifiche non possano mai compenetrarsi in un unico contesto che ha un unico soggetto: l’uomo.
Ho dunque scelto due autori che hanno (anche!) saputo vedere nella scienza uno strumento importante. Uno strumento per l’uomo. Uno strumento dell’uomo.
Mi piacerebbe che, in qualche angolo della terra, si studiassero tali autori con questo piglio, in modo da favorire l’integrazione e la simbiosi fra le diverse discipline, così come la loro sinergia e la “cross-fertilization”.
Il grande Richard Feynam soleva dire che
“physics is to sex as mathematics is to masturbation”.
Nonostante questo, però, la matematica è un importante strumento, senza la quale (ahimè!) la fisica non esisterebbe. Ed è questo il motivo per cui oggi parliamo di matematica. La matematica di Giacomo Leopardi e Umberto Eco.
Nella vita e nelle opere di Giacomo Leopardi (1798-1837) la scienza è un punto di riferimento costante e importante. Si dice infatti che la scienza sia stata la sua prima vera passione, quando, ancora adolescente, cercava conoscenze di filosofia naturale nella ricca biblioteca paterna. E subito rimane affascinato dal metodo e dal rigore della scienza. A soli tredici anni, infatti, scrive "Dissertazioni filosofiche", che include esposizioni molto erudite di logica, fisica teorica e sperimentale. A 14 anni, con il fratello Carlo, invece, scrive "Saggio di chimica e di storia naturale"; l’anno dopo completa l’opera “Storia dell’Astronomia dalla sua origine fino al 1811”, un vero e proprio unicum per l’epoca. Il poeta – celebre per la teoria del piacere –dimostra una grande conoscenza e completezza, conciliate con un’ottima capacità di sintesi ed elaborazione di concetti epistemologici e logici insiti nella descrizione dei modelli con cui la scienza “affronta” la realtà.
Nel seguente passo, tratto da “Dissertazioni filosofiche”, Giacomo affronta il problema della divisibilità, distinguendo il punto di vista fisico da quello matematico:
Infatti noi non possiamo immaginarci un corpo sebben minimo, nel quale non supponiamo due metà, e per conseguenza può senza dubbio affermarsi esser la materia divisibile in infinito numero di parti infinitamente picciole. Deve avvertirsi, che noi non intendiamo di dire che un corpo sia divisibile in infinito fisicamente, ma soltanto geometricamente, e per mezzo de' voli astratti dell'umana immaginazione.
In “Storia dell’Astronomia…”, invece, mostra una grande maturità scientifica, nella quale non nega la possibile esistenza di altri pianeti abitati:
Qual danno che tanti filosofi occupino la loro mente di dubbi dalla discussione dei quali si avveggono essi stessi di non poter ritrarre il minimo frutto, o dei quali conoscono di non poter mai venire alla decisione [...]. Lasciamo l'agitare questa controversia a degli uomini assai folli per spendere le loro ricerche in cosiffatte inutilità, proseguiamo senza ulteriore interrompimento, il filo della nostra storia
Parlando di fisica e astronomia, il giovane Leopardi (non dimenticate che, all’epoca, aveva solo 14 anni!!!) non manca di osservare che l’utilizzo della matematica non è solo affascinante, ma è indispensabile per una descrizione scientifica (fisica) della realtà. Nello “Zibaldone” , il poeta di Recanati, però, muove una pesante critica alla matematica, accusata di “riduzionismo”, nonostante la sua innata capacità – quasi platonica – di cogliere la complessità del mondo.
Nulla di poetico si scopre quando si guarda alla natura con la pura e fredda ragione, quindi nulla di poetico potranno mai scoprire la pura e semplice ragione e la matematica.
Poco più avanti, però, sempre nello Zibaldone, scrive:
Di questa sorta di scienze non abbiamo buoni ed eleganti scrittori, né antichi, né moderni, se non pochissimi. I Greci trattavano queste scienze in modo poetico perché poco sperimentavano e molto immaginavano.
Questi due passi sembrano dunque essere in antitesi, ma non è così. Leopardi, infatti, critica la matematica dei calcoli e delle misure, non la “matematica greca”, il cui significato è sicuramente più vicino a quello moderno: una disciplina di logiche dimostrazioni, teorie formali e argomentative, che, secondo Leopardi, sono vicine alla poesia. Queste considerazioni sembrano essere confermate, sempre nello “Zibaldone”, dove Leopardi, memore del suo passato da cultore delle scienze, sembra avere chiaro il metodo con cui opera la matematica moderna:
Spesso è utilissimo il cercar la prova di una verità già certa [...]. E perciò i geometri non si contentano di avere scoperta una proposizione, se non ne trovano la dimostrazione. E Pitagora immolò un'Ecatombe per la trovata dimostrazione del teorema dell'ipotenusa, della cui verità era già certo, ed ognuno poteva accertarsene colla misura [...]. Però giova il cercare la dimostrazione di una verità già dimostrata da altri, senza aver notizia della dimostrazione già fatta. Perché i diversi ingegni prendono vie diverse, scoprono diverse verità e rapporti, benché partendo da uno stesso punto, o collimando a una stessa meta o centro.
E, a proposito della fantasia e del libero arbitrio invocati, Leopardi – ancora una volta nello “Zibaldone” – sembra accomunare letterati e scienziati:
La facoltà inventiva è una delle ordinarie, e principali, caratteristiche qualità e parti dell'immaginazione. Or questa facoltà appunto è quella che fa i grandi filosofi, e i grandi scopritori di verità. E si può dire che da una stessa sorgente, da una stessa qualità dell'animo, diversamente applicata, e diversamente modificata e determinata da diverse circostanze e abitudini, vennero i poemi di Omero e di Dante, e i Principi matematici della filosofia naturale di Newton.
Infine, nel 1828, con “Crestomazia Italiana, cioè scelta di luoghi insigni o per sentimento o per locuzione raccolti dagli scritti italiani in prosa di autori eccellenti di ogni secolo per cura del Conte Giacomo Leopardi”, abbiamo la conferma che le opere degli scienziati siano delle vere e proprie opere letterarie. Infatti, in “Crestomazia…”, Leopardi cita diciotto brani tratti da opere del grande Galileo Galilei, come il “Saggiatore” o “Dialogo sopra i due massimi sistemi”…
Veniamo a Umberto Eco.
Quando penso a come la cultura possa essere declinata nelle sue molteplici forme, mi sovviene Umberto Eco, grande autore, saggio e filosofo contemporaneo, recentemente scomparso. Umberto, infatti, ha la capacità di mescolare con maestria ed erudizione diversi ambiti del sapere, giungendo così a un’opera eclettica, in cui si assapora la vera cultura. Con la C maiuscola. Non sono riuscito a essere imparziale, ma – come avrete capito - Umberto Eco è un altro dei miei idoli. Nel suo primo meraviglioso romanzo, “Il nome della rosa”, Eco descrive la situazione in cui il protagonista, frate Guglielmo, si perde nella biblioteca-labirinto insieme al suo discepolo Adso. Il risultato è una celebrazione della matematica:
Forse non riesco a ricordare bene la regola, o forse per girare in un labirinto bisogna avere una buona Arianna che ti attende alla porta tenendo il capo di un filo. Ma non esistono fili così lunghi. E anche se esistessero, ciò significherebbe (spesso le favole dicono la verità) che si esce da un labirinto solo con un aiuto esterno. Dove le leggi dell'esterno siano uguali alle leggi dell'interno. Ecco, Adso, useremo le scienze matematiche. Solo nelle scienze matematiche, come dice Averroè, si identificano le cose note per noi e quelle note in modo assoluto. […] Le conoscenze matematiche sono proposizioni costruite dal nostro intelletto in modo da funzionare sempre come vere, o perché sono innate o perché la matematica è stata inventata prima delle altre scienze. E la biblioteca è stata costruita da una mente umana che pensava in modo matematico, perché senza matematica non fai labirinti.
Una metafora fisico-matematica è invece il punto centrale del suo secondo romanzo, “Il pendolo di Foucault”, anch’esso un romanzo giallo in cui si narra la storia di alcuni redattori milanesi che, negli anni ’70, vivono un misterioso e drammatico intreccio di vicende, complotti, legati a società segrete caratterizzate da riti medievali dei Templari e dei Rosacroce. Il romanzo comincia così:
Fu allora che vidi il Pendolo. La sfera, mobile all'estremità di un lungo filo fissato alla volta del coro, descriveva le sue ampie oscillazioni con isocrona maestà. Io sapevo – ma chiunque avrebbe dovuto avvertire nell'incanto di quel placido respiro – che il periodo era regolato dal rapporto tra la radice quadrata della lunghezza del filo e quel numero π che, irrazionale alle menti sublunari, per divina ragione lega necessariamente la circonferenza al diametro di tutti i cerchi possibili così che il tempo di quel vagare di una sfera dall'uno all'altro polo era effetto di una arcana cospirazione tra le più intemporali delle misure, l'unità del punto di sospensione, la dualità di una astratta dimensione, la natura ternaria di π il tetragono segreto della radice, la perfezione del cerchio.
Nel capitolo centrale, Eco usa ancora l’immagine del pendolo. Ma, in questo caso, sceglie un pendolo doppio, che diventa la pietra di paragone per una ardita metafora sul significato dell’omicidio:
Il Pendolo non oscillava più nel suo luogo consueto a mezza crociera.[...] La corda si era tesa sotto il peso della sfera e si era avvolta, ora strettamente come un laccio, intorno al collo del mio povero amico, sbalzato a mezz'aria, pendulo lungo il filo del Pendolo e, volato di colpo verso l'estremità orientale del coro, ora stava tornando indietro, già privo di vita (spero), nella mia direzione. [...] Il collo di Belbo appariva come una seconda sfera inserita lungo il tratto del filo che andava dalla base alla chiave di volta e — come dire — mentre la sfera di metallo si tendeva a destra, il capo di Belbo, l'altra sfera, inclinava a sinistra, e poi l'inverso. Per lungo tratto le due sfere andarono in direzioni opposte così che quello che sciabolava nello spazio non era più una retta, ma una struttura triangolare. [...] Poi, mentre l'oscillatore continuava a incoraggiare quella funebre altalena, per un atroce comporsi di forze, una migrazione di energie, il corpo di Belbo era divenuto immobile, e il filo con la sfera si muovevano a pendolo soltanto dal suo corpo verso terra, il resto — che collegava Belbo con la volta — rimanendo ormai a piombo. Così Belbo, sfuggito all'errore del mondo e dei suoi moti, era divenuto lui, ora, il punto di sospensione, il Perno Fisso, il Luogo a cui si sostiene la volta del mondo, e solo sotto i suoi piedi oscillavano il filo e la sfera, dall'uno all'altro polo, senza pace...
Il nostro viaggio è concluso. Spero che l’articolo possa stimolare un vostro lavoro inter-disciplinare o almeno uno spunto di riflessione per legare discipline o autori lontani. Sempre così maledettamente vicini.
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