Filosofia

Tempo, non c'è tempo...

Questo articolo è stato precedentemente pubblicato sul Notiziario della Banca Popolare di Sondrio.

Il concetto di tempo è da sempre uno spigoloso punto di tangenza tra filosofia e fisica. Infatti, nonostante il tempo rappresenti qualcosa di profondamente intimo e familiare, oggigiorno è ancora molto difficile trovarne una definizione univoca e soddisfacente. Nel celebre “Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie”, Lewis Carrol propone un interessante dialogo tra Alice e il Bianconiglio: “Per quanto tempo è ‘per sempre’?”, chiede la protagonista; “A volte, solo un secondo”, risponde subito il coniglio bianco. Con queste semplici parole il Bianconiglio sottolinea l’elasticità del tempo: esistono attimi che durano secoli, ma esistono anche attimi fuori dal tempo ordinario, fuori dall’incessante logorio dello scorrere del tempo. Come se il tempo presente non esistesse e l’uomo ne potesse addirittura fare a meno. Come se l’uomo potesse scovare la dimensione personale del tempo, un tempo interiore che, però, in realtà è fisicamente inesistente. A tal proposito, Henri Bergson, uno dei maggiori filosofi tra la fine del 1800 e gli inizi del 1900, contrappone il concetto di “tempo scientifico” a quello di “tempo interiore”: se il primo può essere schematicamente rappresentato da una collana di perle, interamente costituita da istanti identici, il secondo concetto è simile a un intricato gomitolo di lana in cui gli attimi non hanno la medesima durata. Il tempo perde il ruolo oggettivo che aveva trovato durante l’epoca ottocentesca del Positivismo. Dunque, il tempo non ha una natura univoca e il suo manifestarsi è umanamente difficile da comprendere e definire. Ma se il tempo è tanto difficile da capire, come possiamo pretendere di capire l’essere? L’uomo abita il tempo come un pesce abita l’acqua, il nostro vivere è essere nel tempo e la realtà evolve secondo il fluire del tempo. È l’uomo che esiste nel tempo o è il tempo che esiste in noi? È evidente che tutte queste domande non possano trovare una risposta e che le elucubrazioni filosofiche non siano sufficienti a risolvere il nostro senso di smarrimento di fronte a un concetto che non sempre ci appartiene. La filosofia ci conduce su una strada impervia e le domande diventano molto complesse, ma la scienza – e la fisica in particolare – non favorisce la nostra comprensione.

Il fisico Carlo Rovelli è uno dei massimi esperti della “Loop Quantum Gravity” (LQG, Gravità Quantistica a Loop), teoria fisica che si pone anche l’obiettivo di eliminare la grandezza tempo nelle equazioni della fisica. Per Rovelli, infatti, il tempo “non esiste”: nel suo ultimo saggio, “L’ordine del tempo”, il fisico descrive come “gli aspetti caratteristici del tempo, uno dopo l’altro, siano risultati essere approssimazioni, abbagli dovuti alla prospettiva, come la piattezza della Terra o il girare del sole”. Nell’introduzione del libro, Rovelli aggiunge inoltre che “Il crescere del nostro sapere ha portato a un lento sfaldarsi della nozione di tempo. Quello che chiamiamo ‘tempo’ è una complessa collezione di strutture, di strati. Studiato via via più in profondità, il tempo ha perso questi strati, uno dopo l’altro, un pezzo dopo l’altro”. Nel XXI secolo, dunque, in fisica, come nella filosofia, non sappiamo esattamente cosa sia il tempo. Perché, paradossalmente, il tempo sembra non esistere. Prima di descrivere “lo sfaldarsi del tempo” citato da Rovelli, è importante, però, tenere in considerazione le più importanti esegesi sul concetto di tempo forniteci da grandi pensatori del passato.

Storicamente, Aristotele è il primo filosofo greco (almeno di quelli di cui abbiamo conoscenza) a porsi il problema del tempo: per il pensatore di Stagira il tempo è “la misura del cambiamento”. Evidentemente, però, se non accade nulla, non esiste un conseguente scorrere del tempo. Di fronte a tale definizione, però, ci troviamo subito di fronte ad un ancestrale dubbio filosofico: esiste il tempo “personale”, quello che scorre mentre siamo in silenzio con noi stessi a fissare il vuoto? Aristotele risponde a questa domanda nella “Fisica”:

“Se è buio e noi non subiamo alcuna affezione corporea, un certo movimento resta comunque presente nell’anima e subito ci sembra che simultaneamente anche un certo tempo stia scorrendo”.

Eccoci, dunque, alla prima definizione di tempo: il tempo è la misura e la traccia del movimento.

Tralasciando momentaneamente il pensiero di Sant’Agostino, storicamente un altro grande rivoluzionario ha affrontato il topos filosofico del tempo: Isaac Newton. Nella sua principale opera “Principia”, il fisico inglese scrive così:

“Non definisco il tempo, in quanto noto a tutti. Tuttavia, va osservato come comunemente non si concepisca questa quantità se non in relazione a cose sensibili. Di qui nascono i vari pregiudizi, per eliminare i quali conviene distinguere il tempo relativo, apparente e banale da quello vero, assoluto e matematico. Il tempo relativo è una misura esterna e sensibile della durata per mezzo del moto, che viene comunemente impiegata al posto del vero tempo […]. Il tempo assoluto, vero e matematico, in sé e per la sua natura scorre uniformemente senza relazione ad alcunché di esterno.”

Newton, dunque, riconosce la concezione di tempo propria di Aristotele, ma aggiunge un altro concetto di tempo: “un tempo vero che passa comunque, ed è indipendente dalle cose e dal loro accadere.” È il contrario di quello che sostiene Aristotele. Ma, dunque, chi ha ragione? Quale dei due giganti del sapere ci sta trascinando nella giusta direzione?

Un secolo dopo, nel 1781, il filosofo tedesco Immanuel Kant pubblica il saggio “Critica della ragion pura”, nel quale descrive la fisica come una scienza fenomenica, costruita per l’uomo e per gli altri esseri con una struttura mentale simile a quella umana. Al pari della matematica, la fisica può essere considerata una scienza sintetica a priori, nella quale le categorie kantiane permettono una sintesi universale tra i fenomeni spaziali e temporali: attraverso l’intelletto (il logos greco), l’uomo lega i diversi fenomeni e arriva alla conoscenza della natura. Dunque, per il filosofo tedesco il tempo è una forma a priori della nostra conoscenza ed è “la condizione soggettiva della nostra sensibilità”. Inoltre, Kant descrive il tempo con un’accezione fortemente soggettiva: il tempo è una coordinata soggettiva della nostra esperienza interiore ed appartiene al solo soggetto umano; esso è in grado di trasformare in fenomeno la natura che l’uomo cerca di conoscere: “Il tempo è la condizione a priori di tutti i fenomeni”.

Il pensiero di Sant’Agostino si colloca in posizione intermedia rispetto alle dottrine degli altri grandi pensatori. Incalzato dai suoi discepoli sul concetto di tempo, il Santo rispondeva così:

“Se qualcuno non mi chiede cosa sia il tempo, io so cosa è. Ma se qualcuno mi chiede cosa sia, non lo so più”.

In queste parole risiede la grandezza del pensiero di Sant’Agostino che, a cavallo tra il 350 e il 430 d.C., anticipa i dibattiti moderni sul tempo. Il tempo è un concetto sfuggevole e fallace, difficile da definire e comprendere perché, in fin dei conti, esiste solo in presenza dell’uomo. Questa è la stessa dimensione spirituale e profondamente interiore di cui parla Bergson 1450 anni dopo. Un tempo che fluisce in modo relativo e indeterminato. Un concetto che si trasforma in terreno fertile per i quesiti esistenzialisti novecenteschi sull’essere. Per Heidegger l’uomo (che il filosofo definisce “esserci”) è un progetto gettato, in quanto radicato nel tempo. “L’esserci” vive un tempo e uno spazio che non ha scelto e è sempre orientato al futuro, in una dimensione trascendente che però non conosce.

Per qualche secolo il pensiero di Newton ha prevalso: l’elegante costruzione intellettuale del tempo newtoniano prescinde dai sensi umani e funziona maledettamente bene per la descrizione dei fenomeni della realtà (la fisica moderna). Il tempo si configura come un’entità superiore che scorre imperturbabile e uniforme, indipendentemente da cosa cambia o da cosa si muove. Questa stessa idea viene insegnata oggi giorno tra i banchi di scuola e appare molto intuitiva e naturale, anche se, per l’epoca non lo era affatto. Basti pensare al matematico e filosofo Leibniz, secondo cui il tempo è una relazione tra concetti e non può essere puramente oggettivo: è una relazione di successione tra il prima e il dopo. Si dice che, in difesa della sua tesi, abbia di proposito privato il suo cognome della lettera “t” (in origine si chiamava Leibnitz), a testimonianza della sua convinzione sull’erroneità della teoria newtoniana sul tempo “t” come entità autonoma e assoluta.

The Walking Lesson -
"The Walking Lesson - A Jacek Yerka tribute" by Sara Menegazzi

Di fronte a questo scenario, però, abbiamo una certezza: nessuna delle argomentazioni fornite è sufficiente a descrivere con precisione il concetto di tempo. Proprio perché – come dice Rovelli – il tempo è caratterizzato, nel corso dei secoli, da un continuo sfaldarsi. Il concetto di tempo è stato costantemente degradato dalla teoria della fisica e dalle principali dottrine della filosofia e, oggigiorno, il tempo si è smarrito. Il tempo ha perso le peculiarità che lo avevano reso univoco e così l’uomo perde una coordinata personale:

“perché alla fine – forse - il mistero del tempo riguarda ciò che siamo noi, più di quanto riguardi il cosmo”.

La prima risposta al quesito sul tempo ci viene fornita dalla teoria della relatività generale di Albert Einstein, con la quale il tempo perde il suo primo strato: l’unicità. Infatti, Einstein sottolinea l’importanza di svincolarsi dall’idea che la fisica descriva l’evoluzione delle cose “nel tempo”, ma piuttosto “come evolvano le cose nei loro tempi e come evolvano i tempi l’uno rispetto all’altro”. Con la teoria di Einstein, grazie al concetto di spaziotempo, “la singola quantità tempo si frantuma in una ragnatela di tempi”: ogni punto dello spazio (più propriamente, lo spaziotempo) ha un tempo diverso e l’uomo può descrivere l’evoluzione di un tempo rispetto a un altro. Non esiste un tempo più “vero” degli altri, ma ci sono tanti orologi reali e distinti che cambiano uno rispetto all’altro. Questo è il motivo per cui il “tempo scorre più veloce in montagna e più lento in pianura”. Grazie ad Einstein, però, troviamo un’altra importante risposta ai nostri quesiti: il tempo perde la propria indipendenza. Il fisico tedesco, risolve l’eterna diatriba sul tempo tra i seguaci di Aristotele e quelli Newtoniani. Rovelli scrive che: “Tempo e spazio sono cose reali. Però non sono per nulla assoluti, per nulla indipendenti da quanto accade e per nulla distinti dalle altre sostanze del mondo”. In fisica esiste infatti il campo gravitazionale che è “l’origine della forza di gravità, ma è anche la trama che tesse lo spazio e il tempo di Newton, sulla quale è disegnato il resto del mondo. […] Lo spaziotempo è il campo gravitazionale (e viceversa). […] Il mondo è una sovrapposizione di tele, di strati, di cui il campo gravitazionale è uno fra gli altri. Come gli altri, non è né assoluto, né uniforme, né fisso, ma si flette, si stira, si tira e si spinge come gli altri. Equazioni descrivono il reciproco influire di tutti i campi gli uni sugli altri, e lo spaziotempo è uno dei campi”. In quest’ottica, dunque, si trova una sintesi tra il pensiero di Aristotele e quello di Newton: il tempo diventa parte di una complessa geometria tessuta assieme allo spazio. Newton intuisce l’esistenza di una quantità che trascende il semplice mutare delle cose: il tempo matematico esiste ed è evidentemente lo spaziotempo, ma è profondamente erroneo pensarlo come imperurbato, puro e indipendente da tutto. D’altro canto, Aristotele ha ragione a dire che “il quando è sempre il localizzarsi rispetto a qualcosa. Ma questo qualcosa può essere anche soltanto lo spaziotempo” di Einstein, un’entità dinamica che compone la “grande danza del mondo”. Studiando le equazioni di Maxwell (le equazioni che descrivono l’elettromagnetismo), inoltre, Einstein si accorge di un altro strato di cui il tempo può fare a meno: il presente. Einstein riesce infatti a dimostrare che per un oggetto in moto (per velocità elevate, prossime alla velocità della luce) il tempo è contratto: il “tempo proprio” non dipende solamente dalle nostre coordinate spaziali, ma anche dalla velocità a cui ci muoviamo. Questo provoca una conseguenza molto pesante: in una qualsiasi località lontana dalla terra non esiste alcun momento che corrisponda a quello che noi definiamo “adesso”, al nostro presente. Rovelli suggerisce dunque che

il nostro presente non si estende a tutto l’universo. È come una bolla vicino a noi. Quanto è estesa questa bolla? Dipende dalla precisione con cui determiniamo il tempo. Se è di nanosecondi, il presente è definito solo per pochi metri, se è di millisecondi, il presente è definito per chilometri. Noi umani distinguiamo a malapena i decimi di secondo e possiamo tranquillamente considerare l’intero pianeta Terra come un’unica bolla, dove parliamo del presente come di un istante comune a tutti noi.

Di conseguenza, la concezione di un “adesso” ben definito ovunque è un’illusione, “un’estrapolazione illegittima della nostra esperienza”. Infine, con la fisica quantistica si frantuma un altro strato del tempo: la continuità. Il tempo misurato dagli orologi, infatti, non è una grandezza continua, bensì una variabile che assume valori discreti e granulari, chiamati quanti. E così, oggigiorno, sappiamo che l’uomo è in grado di misurare il “tempo minimo”, definito Scala di Planck, che corrisponde a 10-44secondi, ovvero un centomilionesimo di un miliardesimo di un miliardesimo di un miliardesimo di un miliardesimo di secondo: a questi tempi si manifestano gli effetti quantistici del tempo. Dunque,

il tempo universale si è frantumato in una miriade di tempi propri, ma se teniamo conto dei quanti, dobbiamo accettare l’idea che ciascuno di questi tempi, a sua volta, fluttua e è sparso come in una nuvola e può avere solo certi valori quantizzati.

A questa spiazzante scoperta, si aggiunge anche quella delle sovrapposizioni quantistiche dei tempi: l’indeterminazione introdotta dalle teorie quantistiche si estende anche allo spaziotempo che viene visto come una sovrapposizione di configurazioni diverse.

Come una particella può essere diffusa nello spazio, così la differenza tra passato e futuro può fluttuare: un avvenimento può essere insieme prima e dopo un altro.

La fisica, al pari della filosofia, ci sconvolge.

L’uomo esce devastato e solo da questo sconcertante – a tratti perfino inquietante – dipinto della realtà: tutto è relativo, tutto fluttua, muta e evolve secondo equazioni prestabilite, assumendo valori quantizzati e non essendo precisamente determinato. Il tempo sparisce improvvisamente dalle nostre vite, che diventano sempre meno certe e deterministiche. Il tempo diventa una mera illusione privo di ogni realtà fisica. Ci ritroviamo “gettati” in un mondo anarchico, dove, come diceva il poeta Caproni in “Dopo la notizia”, rimane solo il vento “Il vento e nient’altro. Un vento spopolato. Quel vento, là dove Agostinianamente più non cade tempo”.

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