We never died, we were never born
Libri. Appunti. Cartacce. Un’assurda quantità di fogli, fittamente intrisi d’inchiostro. Frasi, equazioni e pensieri. Tutto mescolato, tutto così intimamente legato. E poi, quel pesante odore di carta. Quello stesso odore che costringe il lettore a sfogliare avidamente le pagine di un libro. Come le lancette che divorano il tempo, così il lettore legge e sfoglia, sempre più ansioso di sapere.
La mia scrivania è proprio così. Ricoperta di libri, saggi e appunti che cercano (invano) di simulare la struttura del mio articolo. Mentre cerco disperatamente un incipit, che stenta a trovare la sua naturale evoluzione, trovo un post-it. Un piccolo foglio giallo. “Insignificante”, penso immediatamente. Leggo ad alta voce: “Odi et amo”. Catullo. Lo sposto e lo indirizzo verso il luogo adibito a citazioni e aforismi. Dopo un femtosecondo, però, m’illumino. Lo riprendo: Catullo, è lui il mio incipit.
Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris. Nescio, sed fieri sentio et excrucior.
Traduzione per i non-latinisti: Ti odio e ti amo. Forse ti chiedi il motivo per cui io lo faccia. Non lo so, ma sento che accade e mi tormento.
Scommetto che ora vi starete domandando quale sia il motivo per cui abbia deciso di citare il poeta latino. Cosa c’entra Catullo con la fisica quantistica? Nulla. La poesia, però, riesce a evocare in modo semplice la paradossale convivenza di amore e odio nella natura dei sentimenti umani. E quindi? Sto solo cercando di spianare la strada per entrare in questa logica assurda e paradossale; studiamo con passione e curiosità la convivenza di fenomeni, solo apparentemente slegati e in antitesi. Accettiamola e prendiamone possesso. Trasformiamola in un affascinante strumento d’indagine della natura. Questo è il giusto approccio alla fisica quantistica. Studiamo il paradossale con lo stesso spirito con cui Catullo descrive i propri tormenti. Con odio e con amore.
Come sempre, ho deciso di seguire un approccio anticonformista e fuori dai classici schemi di spiegazione di fenomeni quantistici. Ho deciso di eliminare subito ogni residuo di suspense: tra poco, infatti, riporto l’elenco dei concetti che approfondirò nel corso dell’articolo. Perché? Per creare suspense. Sì, avete letto bene. Sembra una contraddizione, ma non lo è. Siete ansiosi di conoscere? Bene, allora tuffatevi in un mondo ancora più ricco di suspense e curiosità: solo così si è ancora in grado di meravigliarsi e stupirsi di fronte alla vera bellezza. Eccovi il succulento menù:
- Nella meccanica classica lo stato di un qualsiasi sistema isolato è noto in un qualsiasi istante di tempo. In meccanica quantistica, invece, l’interpretazione di un’osservazione può essere espressa soltanto in termini di una distribuzione di probabilità che riguarda, per esempio, la posizione o il momento di una particella del sistema. Nello scorso articolo, infatti, avevo introdotto il concetto di stato potenziale astratto, descritto da una funzione d'onda (autostato della particella).Mentre il mondo classico è fondamentalmente determinato (o, comunque, sempre determinabile), il mondo quantistico è indeterminato e indeterminabile, a meno di forzare le nostre misure.
- In meccanica classica il risultato degli esperimenti è oggettivo, mentre in fisica dei quanti dipende dall’interazione tra sistema osservato e osservatore.
- Come già detto, la contraddizione e il paradossale non sono anomalie da superare e rigettare ma, piuttosto, diventano parte integrante della stessa teoria (principio di complementarietà).
- L’uomo rimane sconvolto e, da un punto di vista filosofico, perde ogni punto di riferimento concreto. La realtà assume una conformazione non tangibile. Inoltre, utilizzando una frase di Albert Einstein: “La vera difficoltà sta nel fatto che la fisica è un tipo di metafisica; la fisica descrive ‘la realtà’. Ma noi non sappiamo cosa sia “la realtà”, se non attraverso la descrizione fisica che ne diamo di essa”. E la realtà che tanto invoca Einstein è qualcosa di imprevedibile e casuale.
Ho deciso di presentarvi, senza inutili giri di parole, i risultati più importanti relativi al processo di misura. Come ho anticipato, infatti, in fisica quantistica si assiste a un radicale cambio di prospettiva durante la misura di un’osservabile fisica. Il punto di vista dell’osservatore assume una rilevanza non trascurabile e diventa dunque un aspetto fondamentale durante il processo sperimentale. In questo ambito, i risultati più interessanti sono sicuramente l’equazione di Schrödinger (1926) e il principio di indeterminazione di Heisenberg (1927).
Il principio di indeterminazione (di cui Davide ha parlato più approfonditamente qui) sconvolge letteralmente il mondo della fisica:
- Abbiamo una definizione assoluta dei concetti di “grande” e “piccolo”: un oggetto è “grande” se è possibile misurare con precisione (quasi infinita) la sua posizione e il suo momento (quantità di moto) e ha dunque senso parlare di traiettoria del corpo; invece, il concetto di traiettoria (e orbita) perde completamente di senso per i corpi che consideriamo “piccoli”, ovvero i corpi per cui non è possibile misurare congiuntamente velocità e posizione.
- Una grandezza fisica può essere specificata con estrema precisione anche per un sistema microscopico (un sistema “piccolo”): se per esempio vogliamo studiare la velocità di un fermione confinato in un volume macroscopico V, il suo momento può essere determinato con l’accuratezza che desideriamo, a patto, però, di aumentare il volume della scatola macroscopica in cui è contenuto ( ∆p ≈ h/V).
- Per determinare il moto di una particella in fisica classica è necessario specificare le condizioni iniziali; per enti microscopici, però, il principio di indeterminazione ci impedisce di conoscere tali condizioni, costringendoci dunque ad un approccio probabilistico-statistico (non è possibile conoscere le condizioni iniziali).
- Quando andiamo a compiere degli esperimenti su oggetti “piccoli” non possiamo trascurare le perturbazioni: una misura perturba sempre il sistema, sicché risulta impossibile misurare congiuntamente alcune grandezze.
Principio di indeterminazione:
Δx Δp≥ ℏ/2
ΔE Δt≥ ℏ/2
Le conseguenze sono pazzesche. Per descrivere la particella non si fa più uso del concetto di traiettoria, ma si utilizza la funzione d’onda Ψ (r,t), il cui modulo quadro ha il significato di probabilità di trovare il sistema fisico in una determinata posizione, in un preciso istante di tempo. L’equazione di Schrödinger svolge per la meccanica quantistica lo stesso ruolo delle leggi di Newton per la meccanica classica. Attraverso la celebre equazione (che può essere giustificata solo a posteriori) è possibile descrivere la dinamica di ogni particella non relativistica (noto il potenziale cui è soggetta), determinandone la funzione d’onda (l’autostato della particella). Dunque, la funzione d’onda associata a un sistema è una combinazione lineare degli autostati stazionari dello stesso (stati in cui il valore medio delle osservabili rimane costante nel tempo) e il modulo quadro del coefficiente numerico associato a ogni autostato rappresenta la probabilità che il sistema si trovi in quel preciso autostato stazionario.
Questa interpretazione di carattere probabilistico introduce l’indeterminazione nella fisica: anche conoscendo perfettamente una particella (cioè la sua funzione d’onda) non è possibile determinare con certezza quanto valgono le grandezze fisiche a essa associate: ciò implica, dunque, l’impossibilità di predire con certezza il risultato di una misura, per quanto semplice. Pazzesco. L’uomo non può più avere una conoscenza certa del mondo. Il mondo appare dunque come un oggetto del tutto indeterminato e indeterminabile. L’uomo collassa. L’uomo non si orienta più e cerca invano di trovare una spiegazione ai fenomeni che lo circondano. Tutto vano. Il mondo evolve secondo una funzione d’onda e il meccanicismo viene meno. Solo probabilità. L’impossibilità di avere certezze è una condanna. Una condanna a vagare e a studiare, senza avere, però, la conoscenza assoluta di ciò che permea il nostro universo.
Immaginiamo di misurare la posizione di una particella e di trovarla nel punto X (o meglio, in un piccolo intervallo centrato attorno a X, la cui ampiezza è determinata dalla precisione dello strumento di misura). Possiamo ovviamente affermare che adesso la particella si trova in x = X, ma cosa possiamo dire su quale era la sua posizione prima della misura? Questa domanda non ha alcun senso. Conoscendo la funzione d’onda della particella, sappiamo tutto di essa: la particella, infatti, può trovarsi in una qualsiasi posizione, a cui è associata una particolare probabilità. Prima della misura la particella non si trova in alcuna posizione particolare ma è il processo di misura che la obbliga a prendere una posizione definita. L’osservatore non solo perturba il sistema, ma lo obbliga anche ad assumere un valore ben definito della grandezza misurata. Se ripetiamo la misura, dopo aver trovato x = X, otterremo ancora lo stesso risultato: questo significa che la misura provoca un cambiamento della funzione d’onda che, in seguito alla misura, collassa attorno al punto X.
In definitiva, prima della misura, gli oggetti quantistici si trovano in stati che non sono sempre dotati di un valore definito delle osservabili: infatti, è l'osservatore che costringe il sistema a rivelarsi in uno dei possibili valori e questo è determinato dall'osservazione stessa.
Questa affermazione può sembrare bizzarra, ma ha una validità molto più profonda di quanto si possa immaginare. Molti fisici, infatti, hanno inizialmente rifiutato questa insolita interpretazione, ma gli esperimenti hanno evidenziato che questa è l'unica soddisfacente
La meccanica quantistica quindi introduce due elementi nuovi e inaspettati rispetto alla fisica classica: una è appunto l'influenza dell'osservatore, che costringe lo stato a collassare in un autostato; l'altra è la casualità nella scelta di uno tra i diversi possibili autostati (ognuno con una propria probabilità).
Il primo elemento inaspettato è la violazione dell'oggettività. Il secondo è l'indeterminazione, che rappresenta un'inaspettata violazione della perfetta intelligibilità deterministica. Entrambi gli elementi sono estranei alla mentalità della fisica classica, cioè rispetto a quella concezione ideale (galileiana e newtoniana) che pretende che l'universo sia perfettamente oggettivo ed intelligibile.
La prima interpretazione della meccanica quantistica, che fu proposta da alcuni scienziati negli anni '20, include la figura dell'osservatore come parte del sistema fisico osservato. Così, la figura dell'osservatore cosciente fa capolino in una scienza fino ad allora considerata rigorosamente oggettiva. Non a caso, le grandezze fisiche misurabili, come, per esempio, la posizione o la quantità di moto vengono chiamate, in meccanica quantistica, osservabili. Infatti, si sottintende che la loro esistenza ha senso solo in funzione di una possibile osservazione. Questo rivela la strana situazione in cui gli scienziati si trovano nell'analisi dei sistemi quantistici. Con la meccanica quantistica, la scienza sembra essere arrivata a svelare quella misteriosa frontiera tra soggetto e oggetto che in precedenza era stata del tutto ignorata a causa del principio (nascosto e sottinteso) dell'oggettivazione: fino agli anni ’20, la realtà poteva essere considerata del tutto "oggettiva" e indipendente dall'osservazione di eventuali esseri coscienti: con la formulazione della meccanica quantistica sembra che si debba tener conto necessariamente della figura dell'osservatore cosciente.
Gli effetti che emergono da questo quadro mostrano come, a livello microscopico, la natura non funzioni più come una macchina ma piuttosto come un gioco di probabilità, dove ogni evento è accompagnato dal relativo grado di certezza. Espressioni come “sempre” e “mai”, di cui si fa largo uso per i processi del mondo macroscopico, devono essere sostituite da termini quali “statisticamente” e “probabilmente”, sottolineando come niente può più essere dato per scontato nella nuova concezione fisica. Per la prima volta vengono presentate delle prove sperimentali e delle teorie che confutano il principio di causalità, fino a quel momento alla base dei fenomeni fisici. Esso mantiene la propria validità nel campo della fisica classica (ambito macroscopico), ma perde totalmente di senso in ambito quantistico, dove le soluzioni sono solo probabili e statistiche.
Nonostante le teorie fossero verificate sperimentalmente, aleggiava un forte senso di rigetto e insoddisfazione, soprattutto per le implicazioni filosofiche che derivano dall’assoluta aleatorietà dei processi fisici, dal concetto di indeterminazione degli stati, che nega una realtà fisica indipendente della misura e dall’ambiguità dello stesso concetto di misura. La celebre citazione di Einstein: “Veramente lei è convinto che la Luna esista solo quando la si guarda?”, sembra proprio andare in questo senso. Einstein è l’esempio di come il pensiero umano non possa abbassarsi a concepire un mondo basato sulla probabilità. Il concetto è totalmente alieno alla natura razionale dell’uomo. Noi tutti siamo destinati a “camminare nel vuoto” (shadows walking into nothingness), incapaci di squarciare il velo di Maya e giungere alla conoscenza assoluta della realtà. L’uomo non può mai arrivare al noumeno kantiano (la realtà assoluta) ma si può fermare soltanto al fenomeno, alla realtà così come è percepita dalle nostre categorie che, però, hanno una sola applicazione empirica: si deve dunque abbandonare il loro uso trascendente (oltre i fenomeni); il rischio è, infatti, quello di attribuire alla metafisica un carattere universale e assoluto, giungendo così ad un clamoroso errore. L’uomo si ferma al solo fenomeno, alla propria rielaborazione della realtà, così come egli è in grado di percepirla sulla base delle proprie istanze.
Nel mezzo di questo grande dibattito, alla luce delle diverse ipotesi che difendono o mettono in crisi il vecchio modello deterministico, ci si chiede quale sia la via d'uscita e la soluzione definitiva a questo problema insolubile, divenuto quasi un’aporia. E’ dunque necessario rinunciare definitivamente al concetto di causalità? Nonostante il pazzesco progredire della scienza, non siamo ancora in grado di dare una risposta certa a questo quesito. Forse la causalità non è l'unico principio cui risponde la realtà che, nella sua intima essenza, rivela un livello di libertà a-causale, che l’uomo non è preparato a trattare con i suoi metodi di analisi, legittimando così il caso. L'analisi causale non ha sussistenza nella realtà; essa si origina nel nostro modo di guardare a essa, ma non esaurisce l'analisi del reale, come dimostra la teoria quantistica. Siamo noi a ricercare una regolarità nei fenomeni, impostando quindi la nostra analisi in termini causali, ma non è corretto presupporre che la causalità stia nell'oggetto in studio, nella natura. Il destino dell’uomo è ineluttabile. E il fatto che non disponiamo di altri strumenti di analisi, al di fuori della causalità, non significa che dobbiamo adeguare il reale al nostro modo di pensare. Ancora una volta la meccanica quantistica ci indica quanto della profonda natura della realtà provenga dalla realtà stessa e quanto, invece, dipenda dal nostro modo di indagare.
Nonostante esista un grave problema di “indeterminismo ontologico”, l’uomo ha il dovere di studiare e cercare di capire, nei limiti della propria natura, il mondo: la conoscenza è il più spettacolare strumento che abbiamo a disposizione per provare a dare un senso alla nostra (casuale) esistenza. Sì, certo, siamo solo ombre che camminano nel vuoto, ma ricordiamoci che “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”.
Niente è come sembra. Niente è come appare. Perché niente è reale.
Franco Battiato
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