La sublime forza della Natura di Leopardi
Quando si parla di Giacomo Leopardi si tende spontaneamente ad associare la sua figura al concetto di pessimismo. Secondo la maggior parte degli storici e dei critici letterari, infatti, la poetica di Leopardi deve essere suddivisa in due macro-periodi definiti rispettivamente “pessimismo storico” e “pessimismo cosmico”. Questa concezione moderna, però, non può essere considerata accettabile e vera in toto. Infatti, chi ha avuto la fortuna e il privilegio di leggere e studiare Leopardi con un occhio diverso sa che i suoi scritti non sono una semplice testimonianza del suo pessimismo, ma piuttosto un contributo alla costruzione di un’opera filosofica più ampia incentrata sul concetto di piacere. Sul concetto di finitezza umana e di finitezza del piacere umano. Il “vero filosofico”, inteso come consapevolezza umana della realtà, infatti, è il topos centrale intorno a cui ruotano tutti gli scritti di Leopardi; come a voler sottolineare l’unico ruolo dell’uomo sulla terra: vivere con consapevolezza la propria dimensione. Leopardi, però, non propone una passiva accettazione della realtà, ma piuttosto un atteggiamento positivo e agonistico nei confronti della vita. È evidente dunque che si venga a creare una profonda idiosincrasia tra l’interpretazione pessimistica e quella filosofica. Leopardi non si limita a essere un semplice poeta, ma è prima di tutto un filosofo. Il filosofo della “teoria del piacere”.
"Viandante sul mare di nebbia" di Caspar David Friedrich.Possiamo dunque provare a rigettare l’interpretazione moderna del Leopardi ricorrendo a almeno a due argomentazioni: in primo luogo, se il poeta di Recanati avesse davvero voluto cambiare atteggiamento - da “pessimismo storico” a “pessimismo cosmico”- avrebbe realizzato due differenti raccolte di poesie. Ma non è così. Come già anticipato, infatti, la poetica del Leopardi è un continuo articolarsi e arricchirsi. Le stesse poesie, infatti, autoalimentano gradualmente la sua stessa idea filosofica e poetica nel corso degli anni. Inoltre, Leopardi non ha mai parlato di pessimismo storico e pessimismo cosmico, ma, come detto, si è limitato a tramandare la “teoria del piacere”, intrecciandola e declinandola con molti concetti materialisti, fino a postulare l’ineluttabile infelicità dell’uomo. Un’infelicità figlia dell’impossibilità di raggiungere una condizione estatica di piacere. Una condizione perenne e duratura. È dunque naturale che Leopardi disprezzi e rifiuti il Romanticismo, la passionalità e la religiosità. Infatti, la tradizione materialista epicurea e lucreziana gli trasmettono il forte rifiuto verso qualsiasi forza “superiore” capace di cambiare le sorti della condizione umana. Il suo radicato materialismo, inoltre, lo porta a disprezzare anche i “cultori del progresso”. Per Leopardi, l’uomo non può sfuggire alle fatalità della vita e alla condizione di costante vacuità interiore. Ma non è pessimista. È solo consapevole della finitezza umana. È solo un grande filosofo giunto al termine delle sue profonde elucubrazioni sulla vita e sull’uomo. Questo stesso tema è declinato in una splendida canzone di Franco Battiato, in cui il cantautore siciliano scrive: “Io sono. Io chi sono? […] Tutto è illusorio, privo di sostanza. Tutto è vacuità”. Leopardi ha dato una risposta a questi quesiti nella celebre “teoria del piacere”, in cui l’uomo viene descritto come un essere finito nello spazio e nel tempo che dispone soltanto di due mezzi per risollevarsi da questa ineluttabile condizione: il vero filosofico e la solidarietà tra gli uomini. In questo contesto, “La Ginestra”, composta nel 1836 a Torre del Greco, si configura come la massima espressione della sua dottrina filosofica: il fiore, infatti, è l’emblema dell’uomo ideale, un nobile eroe in grado di resistere alle difficoltà della vita e di essere solidale con i suoi simili nel sostenere il fardello del dolore.
Dagli scritti leopardiani emerge come l’uomo sia sempre alla ricerca di un piacere infinito, illimitato per estensione e durata che, però, non può inevitabilmente raggiungere: tutte le cose del mondo sono circoscritte nello spazio e nel tempo, e dunque destinate a perire. L’aspirazione impossibile verso un piacere infinito viene, però, compensata e parzialmente “corretta” dall’illusione d’infinito creata nell’immaginazione dalla speranza, dal ricordo, dalla cessazione del dolore e da sensazioni vaghe e indefinite. Questi correttivi sono però illusori e non portano a una condizione stabile e duratura di felicità. Sono un’illusione, un gioco e un desiderio vano. Come ci si può dunque risollevare da questa condizione di infelicità e finitezza? L’uomo non deve paralizzarsi nella consapevolezza della propria condizione, ma piuttosto cercare di vivere al meglio delle proprie possibilità (concezione agonistica e positiva della vita), cercando di recare il minor danno agli altri uomini (solidarietà).
Questa consapevolezza gnoseologica della finitezza umana si manifesta anche nel celebre “Dialogo della natura e di un islandese”, in cui Leopardi esprime tutta la profondità della sua esegesi filosofica sulla vita: l’infelicità dell’uomo e il vuoto che lo angoscia e che lo condanna a una sofferenza fisica non sono una condizione psicologica, bensì una condizione filosofica che l’uomo deve cogliere con consapevolezza. Lo scritto diventa lo strumento ideale per dar vita al “pensiero poetante”: ogni immagine e verso è allo stesso tempo poesia e filosofia. La scrittura si fa sempre più energica, asciutta e evocativa senza più afflati poetici. È pura sostanza. Il finale, doppiamente ironico, lascia spazio al profondo interrogativo su chi sia realmente l’uomo e quale sia il ruolo della natura nella nostra vita. Questo stessa suspence conferma il cieco meccanicismo che domina l’universo, dove l’uomo è soltanto uno spettatore consapevole. Inoltre, in “Dialogo della natura e di un islandese” Leopardi confuta l’idea che l’uomo possa modellizzare e controllare la natura, in quanto incapace di metterla al proprio servizio. La Natura sprigiona la sua potenza con un passo elegante e maestoso, ma l’uomo non può fare nulla per cercare cambiare il corso degli eventi. La natura è infatti totalmente disinteressata alla vita umana: “Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l'intenzione a tutt'altro che alla felicità degli uomini o all'infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n'avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei”
A questo punto, dunque, sorge spontaneo chiedersi quale possa essere il ruolo di un uomo di scienza: se l’uomo è davvero così impotente, a cosa può servire la fisica? Quale deve essere l’atteggiamento di uno scienziato di fronte a un mondo incontrollabile? La risposta è facile: dare sollievo all’uomo. La scienza e la fisica sono lo strumento a garanzia della nostra disillusione filosofica. La filosofia è la capacità di astrarre dal mondo fenomenologico, ma la fisica ci aiuta a estrarre dalla natura, dal mondo concreto che ci circonda. Estrarre i concetti chiave che ci permettono di sfuggire alla vacuità della vita. Ci aiutano a rompere la distonia tra piacere e ineluttabile infelicità. Ci aiutano a sviluppare un punto di vista autonomo in una realtà dove la Natura regna misteriosa con intriganti logiche e simmetrie. La fisica è lo strumento più nobile a disposizione dell’uomo: il logos, la modellizzazione e la matematica sono i mezzi che ci tengono in vita in un mondo dove la Natura regna indisturbata. La descrizione della natura è un passaggio necessario e complementare all’elaborazione filosofica sulla finitezza umana. Leopardi ha senz’altro dato un importante contributo alla rivoluzione culturale tramandata dall’epicureismo e dal romanticismo, ma il fisico moderno – e più in generale l’uomo –ha il dovere di andare oltre: saper cogliere la grandezza e la nobiltà della natura, pur riconoscendo l’impossibilità di opporsi totalmente a essa.
Viene quasi immediato associare a questo intrigante disegno culturale – una vera e propria commistione tra scienza, natura, intelletto e passioni – una straordinaria opera d’arte di Caspar David Friedrich: “Viandante sul mare di nebbia” ("Der Wanderer über dem Nebelmeer"). Il quadro del 1817 è un’icona dell’arte romantica: l’errare umano, l’infinito e il sublime sono solo alcuni dei temi glorificati e abilmente veicolati dall’artista tedesco. La contemplazione dell’infinito, insieme alla naturale humiltas scaturita dall’impossibilità di guardare il paesaggio sottostante, conferiscono all’opera d’arte un’aria di solenne malinconia. La potenza irresistibile della natura, il paesaggio brumoso e misterioso, insieme al senso di sublime evocato, permettono un’incredibile tangenza con il senso filosofico trasmesso dalla poetica leopardiana. La straordinaria potenza della Natura, infatti, induce il viandante (homo viator) a una profonda e struggente riflessione interiore: la Natura è sublime - quello stesso sublime invocato da Edumnd Burke nel 1757 in “A Philosophical Enquiry into the Origin of Our Ideas of the Sublime and Beautiful” – e l’uomo è un umile spettatore. Uno spettatore che ha però la capacità di descriverla, modellizzarla e, in un certo senso, metterla al proprio servizio.
Perché, sì, alla fine, è necessaria una profonda riflessione sull’uomo e sulla vacuità della vita denunciata da Leopardi.
Perché, sì, giungere alla conoscenza di chi siamo è un nostro diritto e un nostro dovere.
“Le azioni del mondo non influenzano il Sole e i nemici - è sicuro - sono dentro di noi. Come è possibile restare ciechi per così lungo tempo? […] Scopersi per caso lo stato che ascende alla Gioia” – Stati di Gioia, Franco Battiato.
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