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Quando la fisica del ‘900, quella che oggi conosciamo come fisica classica, assistette alla nascita della meccanica quantistica strizzò il naso: una teoria molto ambiziosa a cui mancava il carattere fondamentale della scienza per come veniva concepita fino a quel momento: il determinismo.
Se succede A, grazie alla legge di X posso prevedere che, con assoluta certezza, accada B.
Questo è quello che succede nel mondo macroscopico, la realtà che ci è dato sperimentare con i nostri sensi. Ma il mondo degli atomi è molto più complicato: le particelle sono onde, le onde sono particelle e a una causa non corrisponde una conseguenza assolutamente determinata; possiamo solo stimare la probabilità che qualcosa accada.
Ai guru della fisica dell'epoca questo non poteva andare bene: una realtà incontrollabile (o quasi), una svalutazione del ruolo dello scienziato. Tra le più famose obiezioni alla meccanica quantistica non si può non includere il paradosso EPR (Einstein-Podolsky-Rosen): un articolo di quattro pagine in cui gli autori, tra i fisici più illustri del momento, cercano di dimostrare come la teoria quantistica non rispetti realismo e principio di località.
Nella visione della meccanica quantistica di Niels Bohr (uno dei suoi padri putativi) si afferma infatti che le quantità fisiche non hanno senso finché non vengono misurate, per cui l’atto della misurazione modifica la realtà—per certi aspetti la viene proprio a creare. Questo si scontra con l’idea classica che la realtà esista indipendentemente dagli osservatori, il realismo.
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