Scienza e guerra: carteggio tra Einstein e Freud
Un altro anno è finito e uno nuovo sta per iniziare.
Nonostante l’umanità sia invecchiata di un altro anno, non mi capacito di come l’uomo non abbia ancora compreso l’importanza della pace nel modo. Attualmente, quante guerre straziano il nostro pianeta? Questo quesito mi spinge a riflettere su un tema particolarmente caro ad Albert Einstein, simbolo per eccellenza della fisica del XX secolo: il legame tra scienza e guerra. Prima di approfondire l’argomento, però, è necessario, fare una premessa: prima ancora che uomo di scienza, il fisico è, o almeno si spera che sia, uomo di coscienza; ritengo che Einstein sia uno dei più importanti esponenti della categoria “uomini di scienza e coscienza” del ‘900, un fisico capace di concepire la ricerca non soltanto come un valido strumento a sostegno dell’uomo, ma anche come un mezzo potenzialmente molto pericoloso. Prima di essere scienziato, il fisico (il medesimo discorso vale per il chimico, il matematico o l’ingegnere…)
deve essere un filosofo: un pensatore razionale, in grado di comprendere i limiti della scienza e le perversità che essa inevitabilmente porta con sé.
Dietro ogni obiettivo di ricerca e di studio, infatti, vi è un nucleo etico e filosofico che è necessario smembrare e analizzare: solo così l’uomo di scienza può ritenersi globalmente soddisfatto del proprio lavoro. Questo non implica che la scienza non debba sostenere i progetti privi di interesse etico ma, al contrario, debba incoraggiarli, esplicitandone, però, le deficienze etico-filosofiche e sia quindi pronta a condannarle.
Lo scienziato, infatti, non può ignorare di essere prima di tutto uomo, un essere che nasce, vive e opera nel mondo, a stretto contatto con le realtà più disparate. In quest’ottica, lo scienziato diventa dunque una sorta di “portavoce dell’uomo”, in grado di concepire la scienza come un potenziale e infinito pozzo di risposte, dal quale l’uomo comune cerca affannosamente e disperatamente di attingere informazioni, spesso con risultati insufficienti e insoddisfacenti. Questo tema conduce inevitabilmente alla distinzione tra il concetto di “scienza buona”, e quello antitetico di “scienza cattiva”, in cui sono insite malvagità, perversione e sangue.
È importante rimarcare che lo scienziato debba cercare nella scienza un supporto per risolvere, (o almeno cercare) problematiche “positive”, che non implichino, dunque, violenza e cattiveria e le cui soluzioni garantiscano strumenti utili per l’umanità. Prostituire la scienza per scopi anti-umanitari è una bestemmia contro il mondo e contro noi stessi. È perversione. È il peccato originale che fin dall’antichità macchia lo scienziato, impedendogli di applicare il proprio genio alla ricerca del solo progresso “buono”. Lo scienziato che non riesce ad affrancarsi da questo status, continua a lavorare portando con sé il fardello di una colpa
ancestrale, di cui i suoi colleghi si sono macchiati in passato, senza riuscire mai a liberarsene.
Questo tema si cala perfettamente nella tetra e drammatica atmosfera della Prima Guerra Mondiale che, spietato teatro di violenza e sangue, è solo il preludio della Seconda Guerra. La Prima Guerra si configura come l’archetipo della “guerra moderna”, dove la collaborazione tra società e scienza diventa via via sempre più fitta, fino a portare a disastrose e irreparabiliconseguenze. Si ha dunque una dimostrazione concreta di come la scienza non sia più solo a servizio del progresso dell’umanità ma entri prepotentemente nella logica bellica con il solo obiettivo di “far male” all’uomo: vincono gli Stati con un potenziale industriale maggiore, le nazioni in grado di garantire ai propri soldati una produzione quasi ininterrotta di ordigni
bellici: nuove armi da fuoco e gas chimici uccidono l’uomo senza alcuna pietà. Durante la seconda guerra mondiali si ha un drammatico trionfo della scienza, che sale sul carro dei vincitori portando strazio e sofferenza.
La bomba atomica è un simbolo ambivalente: se da un lato rappresenta il massimo progresso scientifico e la fine di una sanguinosa guerra, dall’altro, mostra in modo evidente come la scienza abbia perso la sua “serena imparzialità” e sia un mezzo a disposizione degli Stati in grado di supportarla. Con la scienza vince l’Inghilterra nel 1918, con la scienza vincono gli Stati Uniti del 1945.
Questa riflessione ci porta dunque a cercare di approfondire la domanda che Albert Einstein pose a Sigmund Freud nel 1932: “C’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?”. Questo tentativo di comprendere la normalità della guerra ha radici profonde. Già nella primavera del 1915, infatti, a pochi mesi dallo scoppio della Grande Guerra, Sigmund Freud stendeva delle interessanti riflessioni sulle novità belliche, soffermandosi in particolare sul massiccio utilizzo della scienza, prostituita senza alcun ritegno con l’unico obiettivo di distruggere il nemico. Nel celebre “carteggio” di 17 anni dopo, Einstein, apertamente pacifista, si rivolge al conoscitore dell’animo umano, Freud, chiedendogli se “alla luce delle Sue recenti scoperte” esista un modo “per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra” ovvero una possibilità di dirigere l’evoluzione psichica degli uomini in modo che diventino capaci di resistere alle psicosi dell’odio e della distruzione. Freud mostra, dopo un ragionamento logico e profondo, la comprensibilità della guerra con alcuni dei meccanismi tipici della psiche umane (si pensi a tutto ciò che viene descritto nella “Psicopatologia della vita quotidiana”), a partire dalla celebre “teoria delle pulsioni”.
In particolare il padre della psicanalisi giunge alla conclusione che: “sensazioni che per i nostri progenitori erano cariche di piacere, sono diventate per noi indifferenti o addirittura intollerabili […] poiché la guerra contraddice nel modo più stridente a tutto l’atteggiamento psichico che ci è imposto dal processo civile, dobbiamo necessariamente ribellarci contro di essa: semplicemente non la sopportiamo più; non si tratta di un rifiuto intellettuale e affettivo, per noi pacifisti si tratta di un’intolleranza costituzionale, per così dire della massima idiosincrasia”.
Il dialogo tra Einstein e Freud suggerisce due ulteriori spunti di riflessione.
In primo luogo, si ha una conferma che “la guerra spezza tutti i legami di comunità che possono ancora sussistere tra i popoli in lotta e minaccia di lasciare dietro un tale rancore da rendere impossibile per molti anni una loro ricostituzione”. Basti pensare alla questione israelo-palestinese o alle continue incomprensioni e difficoltà che gli stati nel mondo incontrano ancora oggi in molte questioni politiche ed economiche. La scienza “cattiva” ha scosso l’uomo, violentandolo senza alcun ritegno: questa cicatrice non si è ancora totalmente rimarginata.
In seconda battuta, suggerisce che scienziato e filosofo parlino la medesima lingua e che entrambi abbiano il compito di interrogarsi sull’importanza e sul carattere etico della scienza, sollevando dubbi e perplessità e ponendo domande, alle quali dare risposte non solo come ricercatori naturali, fisici e filosofi ma come amici dell’umanità.
Qui trovate il carteggio completo.
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