Fuochi fatui: tra chimica e leggende
In questi giorni, può essere che ti venga in mente di fare un’allegra passeggiatina in un cimitero. Se hai un cuore puro e studi ogni giorno fisica come se tutto il resto fosse poco interessante, quelle che sono le anime dei defunti potrebbero manifestarsi per rivelarti i più grandi segreti della vita.
Se invece di camminare in mezzo alle lapidi preferisci ambienti palustri e incontaminati, specchiandoti in un laghetto, potrebbe capitarti di incontrare l’anima del fabbro Will. Secondo la leggenda il fabbro malvagio di nome Will ((Will-o’-the-Wisp, così ci si riferisce nel mondo anglosassone a questo strano fenomeno.)), giunto alla fine dei suoi giorni, ebbe da San Pietro la possibilità di redimersi. Essendone incapace, fu condannato a vagare sulla Terra per sempre, con in mano un carbone ardente per scaldarsi.
Fedele alla sua malvagità, Will si serve del carbone luminoso per attirare in trappola gli ignari viaggiatori che notano la luce, conducendoli in fitte foreste e terribili paludi dalle quali è impossibile uscire.
Infine se sei interessato alle scampagnate nelle foreste nipponiche, allora degli esseri spirituali di origine non umana, gli onibi, cercheranno di attirarti lontano dal sentiero principale per farti perdere nel bosco.
La cosa che accomuna tutti i personaggi è che si manifesteranno sotto sembianze di fiammelle sfuggenti e di breve durata, di colore blu - verdastro !
Queste storie si basano sul fenomeno che in italiano viene comunemente chiamato fuoco fatuo.
Per tornare alla serietà che ci contraddistingue utilizziamo la strofa di uno dei grandi cantautori italiani:
Solo la morte m'ha portato in collina
un corpo fra i tanti a dar fosforo all'aria
per bivacchi di fuochi che dicono fatui
che non lasciano cenere, non sciolgon la brina.
Solo la morte m'ha portato in collina.
De André nella prima strofa de “Un Chimico” (di cui parliamo anche QUI), da buon narratore della realtà ci fornisce tutte le informazioni per modellizzare questo un fenomeno.
Partiamo dalle origini
ll primo tentativo di spiegare scientificamente le cause dei fuochi fatui è da attribuire al fisico italiano Alessandro Volta, il quale, nel 1776, scoprì il metano. Egli propose che alcuni fenomeni elettrici naturali, come i fulmini, avrebbero potuto interagire con gas prodotti da ambienti paludosi, producendo il noto fuoco fatuo.
Molti scienziati sposarono la tesi di Volta, che però fu presto messa in discussione dato che le testimonianze non accennavano a condizioni meteorologiche favorevoli ai fulmini ed inoltre riportavano assenza di calore. Infine sembrava che il fuoco fatuo retrocedesse quando avvicinato da qualcuno.
Tuttavia, l’apparente ritiro del fuoco fatuo poteva essere facilmente spiegato con lo spostamento dell’aria generato da oggetti in movimento in prossimità del fenomeno e la conseguente dispersione dei gas. La tesi fu dimostrata con una serie di esperimenti prodotti nel 1832 da Louis Blesson.
Sia che siamo in un cimitero, in una palude o in una foresta giapponese i fenomeni di putrefazione la fanno da padrone.
Sebbene a questo punto seguendo la via del macabro sarebbe opportuno fare una giusta parentesi di quanto sia essenziale la morte se si vuole definire un concetto di vita, sia dal punto di vista filosofico che biologico, sorvoleremo questo punto per catapultarci nella comprensione del processo!
Putrefazione
La decomposizione dei materiali biologici non viventi può seguire due decorsi completamente diversi a seconda che ci si trovi in condizioni di presenza o di assenza di ossigeno.
Solo in quest’ultimo caso di può effettivamente parlare di putrefazione.
In presenza di ossigeno prevalgono nettamente le trasformazioni di tipo ossidativo: l’esito finale o comunque avanzato del processo vede un incremento nel numero di ossidazione degli atomi che costituivano le molecole.
La decomposizione aerobica è probabilmente quella che predispone meglio le molecole di origine biologica a tornare in circolo, ovvero ad essere riassimilate da nuovi esseri viventi autotrofi, in primo luogo dalle piante, chiudendo il cerchio del recupero della materia.
Invece le molecole che si formano al termine di un processo putrefattivo, che si realizza cioè a carico dei materiali biologici in assenza o quasi di ossigeno, invece, sono di tipo totalmente diverso. Esse si originano attraverso reazioni prevalentemente abiotiche, ma non mancano anche in questo caso organismi decompositori definiti “anaerobi” in grado di effettuare trasformazioni biologiche anche di condizioni di carenza o di totale mancanza di ossigeno.
All’opposto del caso della decomposizione aerobica, nella putrefazione anaerobica gli atomi che facevano parte delle molecole di origine biologica, tendono alla fine del processo a ridurre il loro stato di ossidazione. Se consideriamo i principali elementi che costituiscono i tessuti viventi (carbonio, idrogeno, ossigeno, azoto, zolfo, fosforo) il punto di arrivo della trasformazione putrefattiva di ciascuno di questi è la sua forma completamente idrogenata, dove cioè l’elemento si trova in forma isolata e lega su di sé con legami covalenti esclusivamente atomi di idrogeno. Nello specifico avremo: CH4, H2, H2O, NH3, H2S, PH3, dove in ogni caso è rappresentato in minimo numero di ossidazione raggiungibile per ciascuno degli elementi coinvolti.
Riprendendo il breve elenco di prima abbiamo l’idrogeno (H2), il metano (CH4), l’ammoniaca (NH3), l’idrogeno solforato detto anche acido solfidrico (H2S) e la fosfina detta anche fosfano (PH3).
Tutte le sostanze citate sono basso bollenti, quindi a temperatura ambiente si presentano in forma di vapore o di gas.
Volendo prendere in esame l’origine di queste molecole, è chiaro che metano ed idrogeno possono derivare da una molteplicità, praticamente da tutte le sostanze organiche inizialmente presenti nel corpo in disfacimento. Per l’azoto le fonti iniziano a restringersi e sono in primo luogo le proteine e le basi azotate degli acidi nucleici.
Per lo zolfo l’origine è essenzialmente amminoacidica mentre il fosforo infine deriva dagli acidi nucleici (DNA e RNA) e dalle molecole trasportatrici di energia chimica (ATP, ADP).
Per quanto detto fino ad ora potremmo effettivamente iniziare a modellizzare il fenomeno pensando ad una sorta di combustione, sebbene infatti abbiamo escluso fenomeni elettrici come innescanti della fiamma non abbiamo ancora parlato dell’autocombustione. che non è altro che un processo di combustione dovuto all’autoaccensione di gas infiammabili.
Gas infiammabili come visto ne abbiamo in abbondanza: metano, idrogeno, fosfina… Ma come funziona l’autoaccensione?
Autocombustione
La temperatura di autoaccensione è la temperatura più bassa alla quale una miscela combustibile - comburente deve essere portata perché sia accenda spontaneamente. Al di sotto di questa temperatura, per provocare l'accensione della miscela, si deve usare una sorgente esterna. La temperatura di autoaccensione può essere definita solo tenendo conto del sistema in cui la determinazione viene effettuata. Per questa ragione, le temperature di autoaccensione non possono essere considerate come valori fondamentali.
In media le temperature di autoaccensione si aggirano intorno a valori pari a centinaia di gradi centigradi ma può essere influenzata da diversi fattori. Sembrerebbe infatti che diminuisca al crescere del volume di reazione e al diminuire del peso molecolare delle sostanze.
Purtroppo nelle migliori condizioni possibili, non riusciremmo però ad ottenere temperature di autoaccensione paragonabili alla temperatura ambiente. Dobbiamo eliminare la nostra ipotesi di combustione.
Che i processi di combustione sarebbero dovuti essere ignorati, De André, te lo aveva ben detto, ma tu sei il solito caprone è per questo hai voluto sentirti raccontare tutta questa storiella.
“…bivacchi di fuochi che dicono fatui che non lasciano cenere, non sciolgon la brina…”
Un processo di combustione infatti per sua natura permette il rilascio di una quantità più o meno grande di calore, ma se i bivacchi di fuochi non sciolgon la brina vuol dire proprio che il calore è assente.
So già il cricetino nella tua mente cosa sta formulando: “e se il calore fosse presente e non fosse sufficiente per scogliere la brina?”
Ora ti tocca sorbire i calcoli. Come ben sai l’energia necessaria per portare a fusione una quantità di materia è detto calore latente di fusione e per l’acqua questa quantità vale λ =335 kJ/Kg. Mentre il calore necessario per permettere la transizione di fase sarà:
Q = λ*m
Con m la massa della sostanza da voler fondere.
Ipotizzando un valore pari a 0,05 g come massa di una goccia di brina, il calcolo è presto fatto. Ed il calore necessario a farla fondere sarà: 16.5 joule.
La combustione di un’unica molecola di metano
CH4 + 2 O2 = CO2 + 2 H2O + Q
Q= 1,47721e-16 joule
Servirebbero quindi una quantità pari a 100000000000000000 molecole di metano per permettere lo scioglimento di una singola goccia di brina. Potrebbe sembrare un numero immensamente grande, ma non lo è considerando che il quantitativo di molecole indicate non è nemmeno una mole di metano e, considerando tutto il carbonio presente nel corpo se ne potrebbe liberare molto di più!
Quindi se non c’è abbastanza calore nemmeno per sciogliere una singola goccia di brina non ci resta che concludere che le fiamme dei fuochi fatui siano “fiamme fredde”.
L’unica teoria che ci rimane da seguire è che i processi che danno vita ai fuochi fatui non siano tanto del tipo combustione ma invece siano non altro che fenomeni di chemiluminescenza.
Chemiluminescenza
La chemiluminescenza è la produzione di luce a partire da una reazione chimica. Due specie chimiche reagiscono per formare un intermedio eccitato (ad alta energia), che rilascia parte della sua energia sotto forma di fotoni. È lo stesso tipo di reazione che permette alle lucciole di brillare o a particolari braccialetti di illuminarsi durante le feste adolescenziali.
La teoria della chemiluminescenza è stata effettivamente verificata presso il dipartimento di chimica organica dell’università di Pavia da Luigi Garlaschelli e Paolo Boschetti ((Link alla pubblicazione scientifica)). Si è visto infatti come la fosfina in condizioni particolari riesca ad emettere luce.
Dictum factum.
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