Filosofia

Un chimico: De André ci canta la scienza

Musica, poesia e scienza. Tre discipline. Tre immagini cariche di emozioni e sentimenti. Tre concetti solo apparentemente slegati, in realtà incredibilmente uniti in un connubio eterno, un’unione primordiale, sovrannaturale e quindi indissolubile: una forma d’arte, che l’uomo ha il dono (e il dovere) di cogliere in tutta la sua bellezza e magia. Così come il pittore cattura un’immagine, appropriandosene con ossessione ed egoismo, per realizzarne una perfetta rappresentazione, che segua la sua geniale interpretazione, così il cantautore afferra concetti e, con il vigore della musica e delle parole, ne trasmette la magia con passione e dedizione. Cosa c’entra dunque la scienza? Ecco, la scienza entra prepotentemente in gioco nel momento in cui diventa la vera protagonista dei versi filosofici dell’artista (o nelle immagini del pittore). La scienza diventa oggetto di meditazione; è il soggetto di una profonda riflessione sul senso della vita e sul vero compito dello scienziato. La canzone, così, diventa un unicum magico, una vera e propria poesia, un inno alla scienza e al sapere.

Fabrizio De André sembra sintetizzare queste idee in una struggente canzone intitolata “Un chimico”. Un piccolo capolavoro in grado di cogliere la vera essenza della vita di uno scienziato, ossessionato dalla ricerca e dominato dalla passione per la propria professione: il chimico è descritto come un vero e proprio fanatico, quasi del tutto estraneo alle dinamiche del mondo e dell’amore, come appartenente ad una realtà parallela, dalla quale trae costantemente sostentamento e forza. La sua vera vita è la scienza, la chimica e, in particolare modo, la legge che “ha potuto sposare idrogeno e ossigeno senza farli scoppiare”.
La canzone appartiene all’album “Non al denaro non all’amore né al cielo”, pubblicato da De André nel 1971. La raccolta è un concept album, ispirato ad alcune poesie de “L’antologia di Spoon River” dello scrittore americano Edgar Lee Masters. Il cantautore genovese legge l’opera a diciotto anni, ritrovando se stesso in alcuni personaggi: così, sceglie nove poesie e, assieme agli amici Giuseppe Bentivoglio e Nicola Piovani, rielabora i testi e scrive le musiche, raccogliendole dunque in un album, che riscuote ancora oggi un grande successo. Ogni poesia de “L’antologia di Spoon River”, tradotto in italiano dalla celebre Fernanda Pivano, racconta in forma di epitaffio (un’iscrizione funebre, molto usata nell’antica Grecia) la vita di una persona sepolta in un cimitero di un’immaginaria cittadina statunitense. La stessa Pivano scrive che “Lee Masters definisce questo libro qualcosa meno della poesia, qualcosa di più della prosa”: un piccolo capolavoro che, scritto con uno stile asciutto, netto e avvincente, sembra dar ragione a Lee Masters.

Tutte le canzoni di De André sono esposte in tono narrativo e mai solenne: le voci dei personaggi sono abilmente sfumate e riescono a non far trasparire un sentito rimpianto per il passato, che sembra appartenere ad un mondo che trascende la loro attuale dimensione; in questo apparente (e forse vero) distacco si avverte solamente l’ansia di raccontare e condividere la propria storia. Le nove canzoni affrontano lo stesso nucleo tematico: il topos del fallimento viene declinato in modo sempre diverso, sempre coinvolgente; dal pessimismo di “Un giudice” e di “Un matto” all’ottimismo degli ultimi testi, ciascun personaggio è caratterizzato da un amore ossessivo e maniacale verso qualcosa: questa stessa perversione lo porta, però, ad un clamoroso fallimento, raccontato con un apparente distacco e con un pizzico di piacere. Il matto “ha un mondo nel cuore ma non riesce ad esprimerlo con le parole” e così, impara l’enciclopedia Treccani a memoria ma, nonostante lo sforzo, diventa lo zimbello del paese. Il giudice, un nano deriso e umiliato che “si trova adulto senza essere cresciuto”, deriso dai cittadini ignoranti che considerano“una carogna di sicuro perché ha il cuore troppo vicino al buco del culo”, cerca vendetta attraverso la sua professione, condannando ingiustamente uomini innocenti. Il medico, invece, ossessionato dal desiderio di adempiere i propri doveri e compiti professionali, cerca in vano di “guarire i ciliegi quando rossi di frutti li credeva feriti”. Il chimico, infine, ha come unico obiettivo la ricerca scientifica: spende la propria vita a studiare il legame chimico che unisce ossigeno e idrogeno, non riuscendo però mai a trovare una donna che lo conquistasse con il suo fascino e “la sua chimica”. 

La canzone dedicata al chimico è caratterizzata da un’atmosfera molto particolare: il ritmo della musica, insieme alle parole abilmente scelte da De Andrè, ha il potere di proiettare l’ascoltatore in una dimensione metafisica, nella quale si può raggiungere la tangenza con la vera essenza della scienza: il sapere, a cui l’uomo tende, sembra avere una conformazione fisica concreta e tangibile, che, però, soltanto il vero amante della scienza, colui che nutre un disinteressato amore verso la disciplina, sa cogliere nella sua interezza. La canzone riesce a riprodurre una sensazione di calma e di magia: un vero e proprio ristoro per l’anima dell’uomo, che, ascoltando musica e parole, sembra redimersi e trovare la pace; una poesia in grado di unire gli uomini alla ricerca della verità. Questo è il vero senso della musica: una canzone è tanto più potente quanto più riesce a permettere all’ascoltatore una piccola evasione dal mondo terreno, immergendolo in una realtà astratta, nella quale non esiste cattiveria, odio e malvagità: un mondo etereo e puro che brilla di luce propria, una luce cristallina e quasi accecante, come in un quadro di Piero della Francesca.

Con l’articolo, vorrei preparare il lettore all’ascolto della canzone, in modo da poterne cogliere tutte le sfumature e bellezze. De Andrè, infatti, riesce anche ad inserire alcune immagini, attinti da reali fenomeni naturali, che contribuiscono ad accrescere il valore artistico e “scientifico” di questo piccolo capolavoro che ogni amante della scienza (e non) dovrebbe conoscere e saper apprezzare. Invito dunque il lettore ad ascoltare la canzone e, nel frattempo, leggere questa piccola guida, cercando di cogliere le poetiche e filosofiche sfumature proposte da De André; il testo è ricco di immagini cariche di significato, un piccolo bozzetto “en plein air” dove musica, parole e l’essenza della chimica diventano un perfetto impasto dal gusto magico e mai banale.

L’incipit (“Solo la morte m’ha portato in collina”) affronta un tema molto caro alla letteratura: l’uomo di scienza, al pari del letterato o, in generale, dell’artista,  è spesso un emarginato sociale che, malvisto dal volgo, dedica la propria vita alla sola ricerca e alla realizzazione delle proprie ispirazioni. In questo modo, De André sembra voler suggerire che il chimico non abbia mai viaggiato e non sia mai uscito dal proprio laboratorio, sempre dedito allo studio delle leggi della chimica.

La prima strofa utilizza un’immagine avvolta da un’aura di fascino e poesia: i fuochi fatui, infatti, sono fiammelle di color blu derivate dalla combustione di metano (CH4, un idrocarburo semplice che in natura si trova sotto forma di gas) e fosfano, o fosfina, (PH3, noto anche come fosfuro di idrogeno, un gas incolore e infiammabile), dovuta alla decomposizione anaerobica del carbonio organico. I fuochi fatui sono una spettrale rappresentazione naturale che si può osservare in inverno nei cimiteri ubicati in zone paludose: la loro impotenza – sono, infatti, fuochi “che non lasciano cenere, non sciolgono la brina” – rimarca il mistero e l’angoscia, che hanno portato alla morte il chimico, ora “un corpo fra i tanti a dar fosforo all’aria”.

Nella seconda strofa, invece, De Andrè introduce un parallelismo, che verrà poi costantemente ripreso in tutta la canzone: l’amore tra gli uomini è paragonato “all’amore tra elementi chimici”, che si sposano (si legano) secondo leggi chimiche e fisiche deterministiche. L’amore, al pari della chimica, viene definito come “un gioco a cui affidare la gioia e il dolore”. In questo contesto, il chimico non riesce a concepire l’amore tra uomo e donna (“gli uomini mai mi riuscì di capire”) e, da completo neofita, cerca di studiare la fenomenologia dell’amore così come si studiano le leggi chimiche, senza riuscire a trovarne una soluzione. Lo scienziato, costretto a morire solo, senza alcun legame con altri uomini (“che strano andarsene senza soffrire, senza un volto di donna da dover ricordare”), non riesce a capire quale sia la differenza tra la morte di un uomo che “esce all’amore e cede all’aprile” e quella di un uomo solo: agli occhi dello scienziato, alla ricerca di una visione meccanicistica e oggettiva, non esiste differenza alcuna: infatti, la morte viene vista come un varco dal quale il genere umano deve necessariamente passare.

La quinta e la sesta strofa sono le immagini caratterizzate dal più alto contenuto simbolico-magico. La quinta strofa sembra una citazione del bucolico Virgilio. La Primavera viene descritta come una donna che ha “le labbra di carne e i capelli di grano”, immagini che sembrano essere attinte da nobili personificazioni virgiliane e dalla celebre tela del Botticelli. Primavera, descritta come Venere, sembra “colpire” tutti gli uomini, conducendoli sulla strada dell’amore, portando con loro “la paura e la voglia che ti prenda per mano e che ti porti lontano”. La strofa, che echeggia a mitici versi latini, descrive la dea dell’Amore, la musa ispiratrice di tutti gli uomini: il chimico è convinto che tutti gli uomini, durante la loro esistenza, vengano colpiti dal dardo “avvelenato d’amore” ma con differenti modalità. Infatti, nella strofa successiva, l’amore viene declinato e rappresentato mediante l’immagine della perfetta unione tra ossigeno e idrogeno (“ma guardate l’idrogeno tacere nel mare, guardate l’ossigeno al suo fianco dormire”), due elementi chimici che hanno saputo legarsi senza scoppiare, secondo una legge chimica che soltanto lo scienziato è riuscito a studiare e capire. In questa strofa è abilmente celata la vera essenza della canzone e della scienza: la freccia dell’amore ha colpito il chimico che, innamorato della scienza, si è dedicato per tutta la vita allo studio di una legge razionale e deterministica, grazie alla quale è possibile studiare una reazione chimica che sprigiona una grande quantità di energia, garantendo così un vero e proprio trionfo della Natura che, portata su un carro nuziale, vince la vita dell’uomo.
Nell’ultima strofa, invece, De Andrè riprende l’immagine iniziale della morte, legata indissolubilmente alla passione dello scienziato. Il chimico, infatti, muore in “un esperimento sbagliato così come gli idioti muoiono d’amore” (nuovamente si rinforza la magia dell’amore per la scienza), solo e senza amici. La sua vita, dedicata alla sola scienza, infatti, non gli ha permesso di trovare l’amore per una donna: l’amore appare, infatti, come uno strano fenomeno irrazionale, non prevedibile con leggi chimiche predeterminate e quindi totalmente fuori dal controllo umano (“non mi volli sposare, non sapevo con chi e chi avrei generato”).

Con questa spettacolare rappresentazione visiva e uditiva, De Andrè riesce a cogliere l’essenza dell’amore, della scienza e dell’amore per la scienza.

Non smettete mai di ascoltare musica e, mi raccomando, meditate sempre sui testi, colmi di interessanti spunti di riflessione: solo così ci si riesce a staccare dal mondo terreno e raggiungere una sorta di Nirvana; si squarcia il velo di Maya e si giunge alla pace interiore, alla pace dei sensi.

TRAINOR, THE DRUGGIST

Only the chemist can tell, and not always the chemist,
what will result from compounding
Fluids or solids.
And who can tell
How men and women will interact
On each other, or what children will result?
There were Benjamin Pantier and his wife,
Good in themselves, but evils toward each other:
He oxygen, she hydrogen,
Their son, a devastating fire.
I Trainor, the druggist, a mixer of chemicals,
Killed while making an experiment,
Lived unwedded.

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